Che ipotesi potrebbe suggerire a un inquirente il quadro che sta emergendo dalle analisi del Dna sulle urine di Alex Schwazer?
Anzitutto che i presunti interventi di manipolazione siano stati più d’uno.
Se tarocco c’è stato, logica vuole che la prima azione sia stata inquinare le provette con urina esogena contaminata da doping, un’urina opportunamente centrifugata e poi congelata e scongelata più volte per depurarla dalle tracce di Dna. Un’operazione, questa, che sul fronte doping è risultata a posteriori non del tutto efficace, forse fu sbagliato il dosaggio degli steroidi, fatto sta che le analisi antidoping standard non rilevarono alcuna positività. Fu necessaria una seconda, più sofisticata e costosa analisi, ordinata (dirà poi il direttore del Laboratorio di Colonia) da qualche preveggente dirigente della Wada di Montreal, per scovare con lo spettrometro di massa gli steroidi che condannarono Schwazer.
Dove potrebbe essere avvenuta questa prima presunta operazione manipolatrice? Ovviamente l’unico luogo dove si sarebbero potute taroccare le urine era quello dove le provette erano custodite.
I primi a custodirle furono quelli del service cui la Iaaf aveva affidato il famigerato prelievo di Capodanno 2016: chi si portò via da casa Schwazer le provette sigillate dichiarò dapprima di averle tenute personalmente in custodia fino al giorno seguente, salvo poi ritrattare nell’udienza del Tas a Rio affermando il contrario, che cioè le aveva lasciate nella sede del Gqs di Stoccarda, che in questa seconda versione avrebbe dunque ospitato i campioni d’urina per una quindicina di ore, prima che il padre (!?!) del responsabile del Gqs li trasportasse al Laboratorio di Colonia. Qui arrivarono accompagnate dal solito modulo rosa con la scritta “Racines” sul riquadro del luogo del prelievo e a quel punto tutti sapevano che il campione A3959325 apparteneva a Schwazer, alla faccia dell’obbligo di anonimato.
I secondi a prenderle in consegna furono quelli del Laboratorio di Colonia, dove tuttora sono custodite, seppur prive adesso delle aliquote fatte arrivare a Parma a febbraio di quest’anno.
Torniamo al Dna: nell’analisi del Ris il livello di concentrazione di picogrammi (ieri, per un refuso, nel mio articolo è inizialmente apparsa la dizione “nanogrammi”) in una urina di 26 mesi autorizzerebbe a pensare a una seconda presunta manipolazione, cioè al pompaggio di ulteriore Dna di Schwazer per eliminare le possibili residue tracce di Dna estraneo. Tale aggiunta, valutata la tempistica del degrado del Dna, sarebbe potuta avvenire solo dopo la consegna delle provette al laboratorio di Colonia.
In che occasione? Forse dopo che la magistratura tedesca intima la consegna di un’aliquota della provetta A alla magistratura italiana? Eravamo a metà luglio 2017 e qualcuno in quel caso potrebbe aver pensato che sarebbe stato meglio correre ai ripari. Ma un conto è taroccare l’urina di una provetta aperta e non risigillata dopo le analisi, un altro conto è mettere le mani nella provetta B risigillata dopo le controanalisi. Molto più difficile. Già, perché a ottobre la magistratura tedesca su istanza di Bolzano cambia idea e obbliga il Laboratorio a consegnare un’aliquota anche del campione B. La resistenza è strenua e disperata. Gli avvocati della Iaaf e del Laboratorio di Colonia riescono a tirare in là altri 4 mesi. Una settimana prima della consegna delle aliquote agli italiani, compare un comunicato della Wada che dà conto dell’allarme segnalato dal Laboratorio di Colonia secondo cui “le provette dei controlli antidoping potrebbero essere manomesse dopo essere state congelate”! Quando il colonnello Lago si presenta a Colonia per acquisire le aliquote dell’urina di Schwazer si sente dire “questa è l’aliquota del campione B, prendere o lasciare”, col responsabile del Laboratorio a indicare una provetta di plastica aperta (!?!) con 6 ml di un liquido che probabilmente apparteneva invece al campione A.
Sotto minaccia di denuncia penale alla fine i tedeschi cedono e vanno a prendere la tanto sospirata provetta B nella loro cella frigorifera. Ma per prelevare i 6 ml, indicati dalla Corte d’Appello di Colonia, bisogna aspettare che si scongeli l’urina. “Approfittiamone per andarci a fare un panino” suggeriscono i tedeschi. Spariscono tutti, la provetta resta lì per quasi un’ora. Per aggiungere una goccia di DNA estratto basterebbe qualche secondo… Che sia avvenuta lì la terza manomissione? Che si spieghi così la discrepanza tra i 437 picogrammi del campione A e i 1187 del B? Con il divario temporale tra il primo pompaggio e il secondo? Oppure siamo di fronte a un maldestro dosaggio? O a un esagerato stress cui è stata sottoposta la provetta A? La perizia del colonnello Lago contribuirà a far luce anche su questo aspetto. Nel frattempo, dopo aver riconosciuto che alcune provette congelate subivano incrinature, la Berlinger comunica alla Wada che non produrrà più provette antidoping e lascia il mercato.
Alla fine di questo excursus si impone un’incontrovertibile riflessione: il Ris analizza il Dna delle urine di Schwazer quasi un mese dopo che hanno lasciato Colonia. Dunque quel valore di 1187 picogrammi/microlitri di Dna, a causa dell’intercorso inevitabile degrado dimostrato in questi casi dalla letteratura scientifica, se fosse stato misurato poco prima di lasciare il Laboratorio di Colonia avrebbe dato una concentrazione ancora più alta, come minimo vicino ai 10.000 picogrammi. E se l’ipotetico tarocco fosse avvenuto invece un anno prima, probabilmente quella cifra andrebbe di molto ingigantita. Ma rimaniamo pure sull’ipotesi più recente. L’ultimo prelievo di urina di Schwazer ha dato 100 picogrammi/microlitri come valore fresco. Dopo 26 mesi quel valore in urina avrebbe dovuto risultare quasi azzerato. Come è possibile che nelle provette sia comparso invece un valore di Dna 10.000 volte superiore?