Domenica 15 ottobre 1967, esattamente 45 anni fa. Ore 22.40, la città di Torino si sta godendo la fine di una domenica di metà autunno, e pensa ormai alla nuova settimana che sta per cominciare. I tifosi del Torino sono contenti per la bella vittoria per 4-2 sulla Sampdoria, con una tripletta di Nestor Combin e la solita grande prestazione di Gigi Meroni. Il giovane numero 7, 24 anni, è già l’idolo indiscusso del mondo granata, che sogna di tornare a vincere qualcosa di importante per la prima volta dopo Superga grazie allo straordinario talento dell’ala destra comasca. E invece il destino, così spesso beffardo verso il Torino, decise diversamente. Gigi Meroni stava attraversando Corso Re Umberto, all’altezza del numero 46, con il compagno di squadra Fabrizio Poletti. Erano fermi in mezzo alla strada aspettando un varco nel traffico. Spaventati da un’auto che li aveva sfiorati, i due fecero un passo indietro. In senso contrario arrivava una Fiat Coupé 124, guidata da un giovane di 19 anni. Poletti fu sfiorato, Meroni fu centrato in pieno. Volò sull’altro lato della strada, dove fu investito e trascinato per 50 metri da un’altra macchina. L’ambulanza chiamata restò bloccata dal traffico, così fu un passante a portare Meroni al Pronto Soccorso. Ma non ci fu nulla da fare, e Meroni spirò all’Ospedale Mauriziano. Beffa delle beffe, a guidare la Fiat Coupé 124 era un tifosissimo dei granata e di Gigi, Attilio Romero, che dopo molti anni divenne presidente del club piemontese (e la gestione sua e di Cimminelli si concluse con il fallimento societario). Le storie che riguardano il Torino non sono mai banali…



Gigi Meroni era nato a Como il 24 febbraio 1943. Aveva perso il padre a due anni ed era cresciuto all’oratorio di San Bartolomeo, come capitava a quasi tutti i ragazzi allora, soprattutto in Lombardia. E per lui l’oratorio fu scuola di vita e soprattutto di calcio. Gigi esordì giocando con la Libertas. Passò presto nelle giovanili del Como con il fratello Celestino, ed era un talento purissimo. Nel frattempo lavorava anche, e i suoi erano lavori artistici e creativi: disegnava cravatte e, nel tempo libero, dipingeva. Fantasia in campo e fuori. Anche mentre giocava a calcio dipingeva opere d’arte. Invenzioni, dribbling, assist. Nel 1962 passò al Genoa, in serie A, e conquistò subito il popolo rossoblu. Giocava ala destra, e portava i calzettoni abbassati come Sivori.



Nell’ultima partita del campionato 1962-63 vennero a cercarlo per l’anti-doping, lui si rifiutò di farlo e fu squalificato per 5 giornate. Primo segnale di un ragazzo “contro” ciò che allora era normale nel mondo del calcio, e non solo. Nereo Rocco lo vide e lo portò al Torino per 450 milioni nel 1964. Un’enormità. Gigi Meroni viveva in una mansarda con Cristiana, una ragazza polacca già sposata e in attesa di divorzio. Guidava una vecchia Balilla, aveva i capelli lunghi come i Beatles, passeggiava nella centrale via Roma con una gallina al guinzaglio. Disegnava i suoi abiti e dipingeva, eppure un ‘sergente di ferro’ come Nereo Rocco stravedeva per lui. Il Torino conquistò il terzo posto, dietro Inter e Milan. Il c.t. Fabbri lo chiamò in Nazionale, ma gli intimò di tagliarsi i capelli: Meroni si rifiutò e rinunciò alla maglia azzurra. Ma un simile talento non poteva rimanere fuori dal grande giro. Esordì al Parco dei Principi il 19 febbraio 1966 in Francia-Italia 0-0. Contro la Bulgaria, a metà gara, sostituì Mazzola e segnò il suo primo gol in azzurro (6-1). Fece sei partite in azzurro e segnò anche contro l’Argentina (3-0). L’ultima presenza fu contro la Russia nella fase finale del Mondiale 1966 (0-1). Poi Fabbri gli preferì Perani nell’infausta gara contro la Corea del Nord (0-1): il gol di Pak Doo-Ik segnò la ‘Caporetto’ del calcio italiano e anche la fine della carriera di Meroni con l’Italia, anche se questo nessuno poteva immaginarlo in quel triste giorno inglese. Gianni Agnelli cercò di portarlo alla Juventus, ma il tifo granata si ribellò e il presidente Orfeo Pianelli fu costretto a tenerlo. Il gol che Meroni segnò a San Siro alla Grande Inter di Helenio Herrera (clamorosamente battuta in casa propria), il 12 marzo 1967, è memorabile. Ai funerali c’erano oltre ventimila persone, ma due mesi dopo la sepoltura a Como la sua tomba venne profanata. Ma il ricordo non potrà mai essere profanato. Nemmeno dopo 45 anni.



 

(Mauro Mantegazza)