Quando il tiro di Leo Messi, ieri sera, ha colpito il palo alla sinistra di Cech, dopo che la stessa Pulce aveva spedito sulla traversa il rigore del possibile 3-1, è venuta alla mente di chi scrive, per una strana associazione di idee, la figura di Benjamin Guggenheim, l’industriale che, a bordo del Titanic che affondava, a chi gli intimava di indossare il giubbotto salvagente rispose: “Ci siamo messi gli abiti migliori e affonderemo come gentiluomini”. E poi, pare, chiese un brandy. Questo è il Barcellona, e l’ha dimostrato anche ieri sera. I catalani, dominatori incontrastati per quattro stagioni del calcio spagnolo, europeo e mondiale, con il pareggio del Camp Nou contro il Chelsea hanno completato il loro periodo maledetto di quattro giorni: hanno perso il Clasico in casa, e quindi la Liga; poi hanno dominato il Chelsea, ma hanno preso due gol in contropiede, così a fare festa sono Drogba e Di Matteo. Due obiettivi stagionali andati in fumo in mezza settimana, e il contentino della Copa del Rey, se arriverà, non salverà certo una stagione. Fine di un ciclo? Chissà: certo che, a guardare le facce dei protagonisti ieri, non c’era da stare molto allegri. Che volete farci, del resto: quando si perde è così, e c’è gente che a lasciare il campo sconfitta non è esattamente abituata. Il Barcellona dal 2008, da quando cioè Guardiola si è seduto sulla panchina dei culè, si è giocato 17 trofei: ne ha portati a casa 13. Sono numeri impressionanti. Eppure, noi siamo abituati a giudicare dall’ultima immagine vista. Siamo un popolo emozionale, che spesso e volentieri si dimentica del passato. Per cui, negli occhi rimane quel tiki-taka che non ha scardinato una squadra che si è disposta al limite dell’area e da lì non si è mossa (e comunque il Barcellona ha fatto due gol, preso un palo, guadagnato un rigore e avuto almeno altre due palle gol clamorose), rimane l’errore di Messi dal dischetto e quella sua statistica, zero gol in otto sfide contro il Chelsea, rimane il fallimento di Pep Guardiola. E rimane una domanda: ma perchè diamine il Barcellona non tira da 20 metri? Perchè ieri, non riuscendo a sfondare, non si sono messi a mitragliare la porta? Non sarà forse che questo gioco che ha incantato il mondo, alla lunga, paga solo contro Saragozza e Santander? Niente di più falso: i numeri di cui sopra sono lì a dimostrarlo, e aggiungiamoci pure tre finali di Champions League negli ultimi sei anni, cinque semifinali consecutive, vittorie come il 6-2 e il 5-0 sul Real Madrid, il 4-0 in venti minuti al Bayern Monaco, e possiamo continuare. E poi, ricordiamocelo sempre, prima di Guardiola ci fu Rijkaard, che si portò a casa una Champions e due campionati nazionali. E allora, ecco perchè Guggenheim che si mette l’abito buono e affonda con la nave: il Barcellona, fino all’ultimo, ha voluto andare avanti con il suo gioco, ha voluto entrare in porta con il pallone, ci ha provato con il solo modo che conosce.
Qualcuno dirà: in modo arrogante. Sarà anche vero, ma i non arroganti, e questo dovrebbe averlo insegnato il “grande rivale” Mourinho, non vincono. I catalani non se lo saranno detto, ma il succo era: “Perderemo, ma lo faremo nel nostro modo”. E va a onore del Barcellona, e non a colpa, l’aver mantenuto la propria filosofia, perchè è quella che li ha portati sul tetto del mondo; e pazienza se Messi ha tirato sulla traversa, pazienza se il pallone non è entrato una terza volta, pazienza se in finale ci va il Chelsea. Non si può sempre vincere. Ciclo finito? Parrebbe, ma attenzione: questa squadra è giovanissima. Come può finire un clclo se il tuo uomo di punta non ha nemmeno 25 anni, se Piqué e Fabregas sono nati nel 1987, Sanchez nel 1988, se continuano a fiorire giovani della Cantera come Cuenca e Tello? Gli unici “vecchi” della squadra sono Xavi e Puyol. Fondamentali quanto si vuole, ma sono sempre due. Il Barcellona, a meno di rivoluzioni che però non sono contemplate, è una squadra che ha ancora tanto, tantissimo, da dire al calcio europeo. Con un paio di punti oscuri. Il primo: che quattro giorni come quelli appena passati sono una mazzata, difficile da digerire per tutti, e che gli avversari, vedendo il Chelsea e il Rel Madrid, un po’ di fiducia devono averla presa (anche se, personalmente, resto convinto che il Barça di oggi si batta solo se non gioca bene). Il secondo: Guardiola. Che, quando è arrivato, si è trovato di fronte un gruppo che aveva passato due anni a prendere schiaffi dal Real Madrid in Spagna e da tutti in Europa. Era lo squadrone di Rijkaard, che però non aveva più motivazioni, e con Ronaldinho fuori dal progetto. Pep vide, sistemò, vinse tutto. Da tempo si parla di un suo addio: Chelsea, Milan, anno sabbatico, non importa. Quel che importa è che se Guardiola lascia, allora sì che il Barcellona si potrebbe sgretolare; sì, che potrebbe davvero essere finito un ciclo. Per i possibili sostituti si parla, manco a farlo apposta, di soluzioni interne: il ritorno di Luis Enrique, o la promozione di Eusebio. Si vedrà, perchè quello è il futuro. Il presente parla di un Barcellona eliminato. Complimenti al Chelsea, e onore, e ancora onore, a Guardiola e i suoi.
(Claudio Franceschini)