Quando hai 15 anni e fai nuoto a livello agonistico, solitamente sei davanti alla televisione a guardare i campioni che si contendono le medaglie olimpiche, con il sogno ben stampato in testa di potere, un giorno, gareggiare con loro. Qualunque ragazzino con la passione dello sport vi direbbe che nel cassetto dei desideri – molto spesso buio, perchè impossiblie da aprire – c’è la vittoria di un trofeo prestigioso, strappato al fenomeno di turno. Se fai nuoto e sei nato in Lituania, il tuo sogno resterà impossibile. Fino a ieri. Il Paese Baltico, 65.200 chilometri quadrati (cinque volte meno dell’Italia), tre milioni e mezzo di abitanti (poco più della sola Roma), non brilla certo per la tradizione natatoria: altre sono le discipline che la vedono brillare, su tutte il basket. Ruta Meilutyte, nata a Kaunas il primo marzo del 1997, quando ha iniziato a tuffarsi in una piscina doveva sapere che molto probabilmente le campionesse che guardava atttraverso il tubo catodico non le avrebbe mai emulate. Strutture non certo all’avanguardia, interesse prossimo allo zero: quando mai arriverà una medaglia al collo? Non ha dovuto aspettare tanto. Nel 2011 vince oro, argento e bronzo agli Europei Giovanili di Trabzon, in Turchia. Si qualifica per Londra, vicino a casa, perchè nel frattempo si è spostata a Plymouth, contea del Dover, sud dell’Inghilterra. Si allena lì, da due anni, da quando ha perso la madre e il padre ha deciso di trasferire la famiglia (oltre a lei, due fratelli). Quando domenica mattina entra in acqua per le batterie dei 100 metri rana, cuffia verde con bandiera lituana stampata ai lati, non la considera nessuno, meglio: non la conosce nessuno. La Lituania non ha mai vinto una medaglia nel nuoto. Ci era riuscita Lina Kacyusite nel 1980, ma sotto la bandiera dell’Unione Sovietica. I nomi sono altri: Yulia Efimova, record europeo in carica, Leisel Jones, ovvero colei che ha vinto a Pechino quattro anni fa, magari Rikke Pedersen. E Rebecca Soni, oro nei 200 rana, argento nei 100 a Pechino, 5 medaglie mondiali (4 ori), record del mondo nei 100 metri rana. Chi, se non lei, dovrebbe vincere la gara? Fatto sta che si parte, e Ruta nella quarta batteria timbra il miglior crono. Esce dalla vasca, e si abbandona a un pianto che, se non avessimo visto la sua prestazione, sembererebbe quasi disperato: per lei, essere in semifinale è già una vittoria. Ma la sera stessa ci si gioca la finale, e adesso le attenzioni, pur se magari ancora scettiche, ci sono: come reagirà questa quindicenne bionda che sembra essere all’Aquatic Center per caso? Risposta: con il record europeo, 1’05”21. Le lacrime non ci sono più: Ruta va ai microfoni, dice di avere fiducia, di sentirsi bene. Tradotto: il miglior tempo l’ho fatto io, e adesso venitemi a prendere. Arriva la finale, e a bordo piscina sfilano le regine della specialità. E lei, costume azzurro e cuffia verde, quasi un pugno in un occhio, e unghie dipinte secondo i colori della bandiera lituana. Corsia 4, la migliore, di fianco a sua maestà Rebecca. Adesso sì che sanno chi è: per lei, è presente in tribuna addirittura Dalia Grybauskaite, presidentessa della Lituania. Scattano le otto finaliste (non prima di una falsa partenza della Larson, riammessa perchè l’errore è tecnico), e la Meilutyte esce dalla subacquea come un proiettile, davanti a tutte. Tocca per prima ai 50 metri, e chiunque stia guardando in quel momento pensa la stessa cosa: adesso crolla, è il solito, banalissimo errore dei giovanissimi, partire sparati senza la minima capacità di gestire. Infatti la Soni recupera, viene fuori con il suo abituale secondo 50 – una progressione inarrivabile – quasi la appaia e si appresta a superarla. Ma le Olimpiadi non sarebbero tali se non vivessero di favole: e così gli Stati Uniti, che hanno perso un’altra medaglia poco prima quando Ryan Lochte si è fatto fregare ancora una volta da Agnel (ma anche da Sun e Park), sbarrano tanto d’occhi – increduli – nel vedere questa lituana in miniatura che non cede, non cede, non resta mai dietro. Anzi. Tocca per prima, in 1’05”47, davanti alla Regina Rebecca. Quando si gira e vede il tempo, meccanicamente alza le braccia al cielo sedendosi sul delimitatore di corsia. Quello che ha fatto lo capisce solo minuti più tardi, alla premiazione: 



Sale la Suzuki per il bronzo, sale la Soni (con sorriso a 32 denti: si può essere campionesse anche nella sconfitta) e poi, ancora prima che lo speaker faccia il suo nome, Ruta Meilutyte scoppia di nuovo a piangere. Cerca di contenersi, mostra la medaglia, non ci crede nemmeno lei. A fine gara dirà: “Mi tremavano le gambe sul podio, volevo andarmene subito, avevo paura di cadere”. E ancora: “In Lituania non mi conoscono in molti”. Da oggi, probabilmente, sarà un’icona nazionale. Forse più tardi, nella tranquillità del Villaggio Olimpico, si sarà seduta e avrà capito di aver vinto davvero. O forse no: ci sono i 50 e i 100 stile libero da onorare, non è ancora tempo di sedersi ad ammirare il trofeo. La prossima volta che lo farà, potrebbe essercene qualcuno di più.



 

(Claudio Franceschini)

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