E’ finita con Serena Williams che ai microfoni del cerimoniere Mary Carillo diceva “Pensavo di venire qui a raccontarvi della mia sconfitta”. Non sono parole di circostanza: questa volta, l’americana ha davvero visto streghe, fantasmi del passato e quant’altro. Ha vinto lei il torneo femminile degli Us Open, come del resto il pronostico indicava ampiamente; ma ha dovuto sudare ben più delle canoniche sette camicie (in questo caso vestitini, come quelli che le ragazze del circuito sono solite indossare) per avere ragione di una Victoria Azarenka che sul centrale di Flushing Meadows è andata oltre quanto tutti potessero aspettarsi alla vigilia. Finisce per la Williams in 2 ore e 18 minuti: il pubblico dell’Arthur Ashe non vedeva una finale femminile chiudersi al terzo set dal lontano 1995, quando Steffi Graf aveva avuto ragione di Monica Seles pur perdendo 6-0 il secondo parziale. Già questo basterebbe a giustificare ampiamente il prezzo del biglietto; ma c’è di più, perchè nessuno dei presenti avrebbe mai immaginato che dopo 34 minuti, con le due giocatrici sedute nei loro angoli e il punteggio che recitava 6-2 Serena Williams, la partita potesse protrarsi oltre le due ore di gioco. E’ andata così, invece: merito della Azarenka, che in avvio di secondo set ha avuto la consueta fiammata d’orgoglio della numero 1 ferita e ha strappato la battuta all’avversaria, già questo un evento da prime pagine dei giornali di tutto il mondo. Poi, la bielorussa ha fatto di più. Se c’è un limite nello strapotere fisico di Serena, è quello di non sapere come gestire una battaglia punto a punto; abituata com’è a demolire chiunque sotto servizi e bordate di rovescio, l’americana non sa cosa significa giocare ogni scambio come se fosse un match point. La Azarenka sì: veniva da due maratone contro Stosur e Sharapova, in cui l’aveva spuntata sul piano del ritmo e della maggior lucidità. Ieri sera ha replicato: è stata bravissima a capire che la Williams aveva qualche problemino con il dritto e che non era perfetta in battuta, e allora ha spinto sull’acceleratore, ha giocato al massimo e anche di più, ha cominciato a trovare risposte profonde che hanno mandato in tilt i programmi di Serena, che si vedeva con le braccia al cielo in un’ora o giù di lì. Il break conquistato in apertura è stato decisivo; addirittura bissato nel finale di set, ha consegnato a Vika il 6-2 e il parziale decisivo. Qui abbiamo tutti pensato – quantomeno, il sottoscritto l’ha fatto – che la Williams avrebbe ripreso in mano il filo del discorso e sepolto la malcapitata Azarenka sotto una valanga di ace; niente di più sbagliato, perchè è stata ancora una volta la numero 1 al mondo a capitalizzare e centrare il break. Il pubblico ha cominciato a impazzire: per loro, vedere trionfare la padrona di casa o assistere alla vittoria dell'”underdog” (lo sfavorito: concetto quasi sacrale da quelle parti) avrebbe comunque assicurato uno spettacolo da raccontare per i più classici dei “io c’ero”. Serena, comunque, ha reagito: ha cancellato 4 palle per il 3-1 della bielorussa, e a sua volta ha strappato il servizio all’avversaria. Finita? Neanche un po’: la Azarenka ha insistito sul punto debole della Williams, il dritto che ieri sera non funzionava troppo, e l’americana, minata in quella certezza, si è come fermata, incapace di muovere i piedi dopo il terzo scambio, di seguire con il movimento delle spalle il colpo, che così finiva invariabilmente in rete. Si è salvata di talento puro un paio di volte, poi sul 3-3 ha concesso ancora il break. Qui la Azarenka ha capito di avere l’occasione della vita e, dove un’altra avrebbe tremato e si sarebbe spaventata, ha retto l’urto da campionessa: 5-3, e per la prima volta in tre mesi Serena Williams si è ritrovata con le spalle al muro, ed è stato lì che nella sua mente si sono formate le immagini della finale dello scorso anno e della Stosur, del giudice di sedia che le chiama fallo di piede e poi ne causa la squalifica per minacce, dei tre anni senza vittorie a Flushing Meadows. Si è trovata 15-15 sul proprio servizio e non ha tremato, ma poi la Azarenka è andata a servire per il secondo Slam della sua carriera. Ed ecco l’evento inaspettato e incontrollabile: 



Le palle nuove. Vika ha iniziato il turno in battuta e in un amen si è trovata 0-40, un po’ per il peso del punteggio, un po’ (e molto di più) per quelle palline impazzite che, impattate come un minuto prima per cercare la profondità e far male alla Williams, volavano via. La prima palla break, la bielorussa l’ha salvata con un dritto in arretramento da ovazione, ma poi ha dovuto cedere e ricominciare tutto da capo. A questo punto, però, Serena non gliel’ha più concesso: magicamente ha ritrovato fluidità nei movimenti e precisione nei colpi, andando infine a chiudere e stendersi sul cemento dell’Arthur Ashe, prima di abbracciare la famiglia con aria di incredulità. Finisce con più errori non forzati (45) che vincenti (44): la più forte rimane lei, checchè ne dica una classifica che non può premiarla se gioca così poco nell’arco dell’anno. La Azarenka si abbandona alle lacrime per esserci andata a un passo, poi si ricompone e, con il sorriso sulle labbra, afferma che “tra pochi minuti uscirò da qui e saprò di non avere alcun rimpianto”. Ha ragione: più di così non poteva fare, anche se quel nono game del terzo set, probabilmente, se lo rigiocherà in testa chissà quante volte. Però, Vika ha 23 anni, ha fatto due finali Slam quest’anno (vincendo gli Australian Open) ed è sempre più la numero uno al mondo: il futuro è decisamente suo. Serena Williams vince il quindicesimo slam di una carriera fantastica, il quarto a casa sua: siamo certi che la vedremo ancora, almeno per tutto il 2013, e poi chissà. Intanto, se mai ci fosse ancora bisogno di prove, il suo nome è tra i grandi del tennis.



 

(Claudio Franceschini)

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