La poesia nel ciclismo è morta da lungo tempo. Forse è morta in una notte di dicembre, vent’anni fa, fra le lamiere di una Ford Sierra, insieme a Gioàn Brera fu Carlo, l’ultimo – o forse l’Unico – narratore dello sport elevato a letteratura.

O forse è morta in un albergo di Rimini, un albergo di infima classe e grigio come il dorso di una strada anonima di città. Più semplicemente, piuttosto, potrebbe essere stato ucciso a suon di scandali, operazioni di polizia internazionale, piani di ricerche scientifiche e criminose e flussi di denaro a palate. Forse, al Gioàn il Dio del ciclismo risparmiò soltanto una lenta e dolorosa agonia, chissà.



Eppure venitelo a dire a noi, che di imprese ciclistiche ci nutriamo come il pane. Noi capaci, oggi come allora, di saltare sulla sedia per una fucilata di un finisseur, che nulla ci pare posseder meno della Fucilata Suprema, Goodwood, tanti anni fa. O per la progressione di uno scricciolo su una montagna di pietra, fra boschi o su strade sciolte dal sole. Mont Ventoux, Tourmalet, Courchevel, Cuenta de las Cuenas, Gavia, Pordoi, Sella, Stelvio, Finestre. Nomi già di per sé imponenti, che evocano drammi, tragedie greche, pensieri allegri, freddo e caldo, nasi che ondeggiano madidi di sudore eppure mai rassegnati. Venitecelo a spiegare, che il ciclismo ormai è morto e sepolto, dal doping e dal denaro che ci gira intorno. Perché non è facile ingannarci. Noi siamo osservatori attenti, spesso perché le fatiche della bicicletta le conosciamo in prima persona, quando saliamo su per una breve salita figurandoci di avere una maglia celeste sulle spalle e nessuno all’orizzonte ad inseguirci. Troppo distanti.



Però l’amarezza che noi, popolo eletto come il popolo di Israele e come il popolo di Israele martoriato da ogni possibile sferzata di un destino cinico e baro – o, forse, dalla cecità della nostra stessa passione, così, come un tempo, dalla stessa cecità degli Israeliti –, stiamo provando in questi giorni è difficile da descrivere. C’era una volta un americano. L’Americano, lo chiamavano. Addirittura, il Re Americano. E i francesi questa volta si incazzano, ma sul serio. L’Uomo del Mistero. Sette anni di gloria, la Gloria più alta. Tour de France, trionfo. E la sublimazione suprema della vittoria come ritorno alla vita dopo una morte reale e incipiente, che insidiava i calcagni e che era salita su, fino quasi a portarsi via tutti i tessuti del cranio. Quasi irreale, perché neanche nelle fiabe si poteva immaginare un finale così trionfale. Ma Christian Andersen aveva capito tutto. Le fiabe non finiscono mai come ci si poteva aspettare. La Piovra uccide la bella Sirenetta. Ma questa volta ad uccidere il Mito non è stato un nemico reale e spietato. È stata la sua stessa faccia, quella più oscura e nascosta a tutte le telecamere del mondo.



C’era una volta uno squadrone blu. Lui era il Re. A circondarlo erano i suoi cavalieri. Cavalieri con un fiato incrollabile, facce cattive e gambe resistenti come il tessuto di fustagno. I loro nomi erano Manuel Beltran, detto Tricky, Cecio Rubiera, José Azevedo, George Hincapie, Floyd Landis, il Mennonita, Roberto Heras, capace di battere perfino le capre in arrampicata, Levi Leipheimer, Tyler Hamilton, l’uomo dal braccio spezzato. La più forte squadra di tutti i tempi. Un’orchestra perfettamente organizzata e metronomica, capace di zittire nel suo clangore ogni rumore circostante. Sette anni. Sette, come si sa, nella Bibbia è il Numero più perfetto di tutti gli altri. Rappresenta la compiutezza dell’essere. Forse però questa volta però la Perfezione si è compiuta con la caduta.

La parabola del Re, Lance Armstrong, questo è il suo nome, si è compiuta nel freddo di uno studio televisivo, davanti agli occhi sgranati, ora rabbiosi ora carichi di mesta rassegnazione, dell’America e del Mondo intero. La parabola si è compiuta con la caduta. Il destino di chi vuol vincere la morte con la gloria è scritto nel fondo dell’uomo. Ed il destino di Lance Armstrong non fa eccezione. La domanda che rimane è “perché”? Combattere la Battaglia Suprema, che tu, il Re, avevi vinto non ti era bastato? Non era stato sufficiente? Non il denaro – il denaro è concime del Diavolo ma non ne è mai il frutto che si desidera veramente – ma la sete di gloria ti ha portato a tutto questo? Hai barato, andavi come una motocicletta, avevi un motore nascosto nelle arterie e nelle midolla, le gambe rivestite di fibre di acciaio e non di fibre di carne. Hai triturato sotto le lame delle tue ruote, della tua catena, delle tue moltipliche tanti uomini. Ma soprattutto te stesso, nella spirale di successo. E hai indossato una maschera da Giustiziere, da novello Salomone che dispensava generosamente traguardi ai meritevoli e condanne senza appello ai cattivi. Solo di una cosa si era scordato. Salomone era giusto perché aveva domandato la Sapienza. Lance invece l’aveva seppellita sotto il proprio orgoglio, il proprio orgoglio di uomo ferito dalla vita, di self-made man.

E ora, andatelo a dire a Pippo Simeoni, riacciuffato davanti a milioni di persone, sferzato e privato della propria carriera. E per quale motivo? Per aver detto nient’altro che la verità. E sotto giuramento, per giunta. Con che coraggio, Lance, tu che hai combattuto battaglie di una nobiltà inequivoca e cristallina?

Andatelo a dire a Joseba Beloki. Il basco. L’uomo sempre secondo. Chi gli spiegherà che la sua fatica era stata inutile solo perché avanti a sé aveva trovato un ostacolo fatto di nervi, fibre e chimica? Polverizzato, come la sua clavicola ed il suo bacino, quando il caldo fondente dei Pirenei gli incollò il copertone a terra, proprio nel momento in cui sembrava potesse affrancarsi dalla Ambigua Grandezza del (fu) re. Ironia beffarda. Ironia, perché quello stesso giorno il re evitò la caduta attraversando i campi di un pendio fatto di erba e sassi. Non un graffio, non un segno tangibile sulla propria pelle. Un segno nell’anima però c’era, e non potrà essere cancellato neppure dal bisturi del miglior chirurgo.

Andatelo a dire a Marco Pantani. Lui, che aveva pagato una colpa più grande delle sue capacità, la cui anima stava già andando in pezzi come quel vetro che spaccò con un solo pugno a Madonna di Campiglio, quando vennero a prenderlo nella notte come un delinquente qualsiasi. Un delinquente poeta, che aveva ridato la speranza di poter ritornare a guardare due ruote che salgono per una stretta strada di montagna così come si guarda stupiti e commossi la volta stellata in un cielo senza nubi, lontani dalle luci delle città consuete. Al Poeta, l’ultimo Poeta, fu concessa la beffa suprema. Mont Ventoux, teatro di tragedie su cui, si dice, si possa ancora incontrare il fantasma barcollante di Tommy Simpson e se ne possa sentire ancora l’odore del fiato carico di whiskey ed anfetamine. “L’ho lasciato vincere”, disse alla fine della prova. L’ultimo affronto. L’ho lasciato vincere. Parole che hanno scavato il Poeta come un cocomero mangiato dal grillotalpa. Pochi giorni dopo lui, uomo nudo, con le sue sole forze di Uomo Grande, fu il primo e l’unico a battere il re. Non sapeva di avere battuto non solo il re ma anche la presunzione umana, di aver battuto un motore supplementare ed irraggiungibile. Di lì a poco sarebbe ruzzolato – o sarebbe stato fatto ruzzolare – rumorosamente nel rusco. Chissà che cosa starà pensando ora. Chissà cosa avrebbe pensato. Aveva battuto non un uomo ma la stessa arroganza umana, con la forza del proprio coraggio e della propria nudità.

Ma soprattutto, andatelo a dire a Lance Armstrong. L’uomo che aveva tutto. Denaro, potere, donne, successo, vittorie. Era tutto finto. Il regno dell’effimero. Come ci si sente, ora? Come ti senti, ora? Forse la Verità ti avrà fatto più libero. Non si sa. Non lo potremo mai sapere. Lo saprai solo tu nel tuo intimo, se avrai il cuore di gettare la tua maschera, una volta per tutte. Eppure quel castello che avevi costruito era fatto soltanto di sabbia. E ora è crollato. Cosa resta? Un uomo, solo un uomo. Non l’Uomo, non il Re, non la Gloria ma una fredda confessione in uno studio televisivo.

Hai corso col diavolo alle calcagna per troppo tempo, Lance. Ora è giunto il tempo di fermarsi. Ed è giunto il tempo per noi di ritornare a sognare una bicicletta che sa di sudore e di rose poetiche, sperando che la tua confessione sia la possibilità di una Redenzione per te stesso e per l’intero nostro, amatissimo mondo.

 

(Gabriele Gatto)