“Sì, mi sono dopato in tutti e sette i Tour de France che ho vinto”. La confessione di Lance Armstrong nell’intervista con la popolare giornalista americana Oprah Winfrey è stata piena. Ieri sera (nella notte italiana) è andata in onda la prima parte di questa lunghissima intervista, la cui seconda parte sarà invece trasmessa questa notte. Ma certamente quello che tutti ricorderanno sarà il botta e risposta iniziale tra i due, quando la Winfrey chiede ad Armstrong di rispondere semplicemente ‘sì’ o ‘no’ ad una serie di domande. “Ha fatto uso di sostanze dopanti?” “Sì”. “Ha fatto uso di Epo?” “Sì”. “Ha fatto uso di trasfusioni?” “Sì”. “Ha fatto uso di cortisone e di testosterone?” “Sì”. Una confessione piena, di cui ormai tutto il mondo sapeva ma che fa comunque impressione pronunciata personalmente dal diretto interessato. L’unico “no” arriva quando la giornalista gli chiede se riteneva possibile vincere quei sette Tour senza ricorrere al doping: Armstrong racconta infatti che per lui doparsi era come “gonfiare i tubolari o riempire d’acqua le borracce”. Non c’è traccia di pentimento nelle sue parole: in quegli anni doparsi era “normale” in gruppo, “su 200 ciclisti al Tour erano forse in 5 o 6 a non doparsi”. Parole che distruggono il ciclismo di quegli anni, anche se Armstrong vuole pure sottolineare come oggi le cose stiano diversamente: “Ora con il passaporto biologico e i test fuori competizione è molto più complicato”, ed infatti tiene a precisare di non essersi dopato nelle due stagioni del suo ritorno agonistico (2009 e 2010). Lance non pensa nemmeno di essere stato un imbroglione: “Ero persino andato a controllare il significato della parola ‘Cheat’. Vuol dire prendersi un vantaggio sugli altri. Ebbene questo vantaggio non c’è mai stato”. Ammette però che nel Tour 1999, quando fu trovato positivo al cortisone, una ricetta medica fu retrodatata. Fu proprio con il cortisone che Lance iniziò a doparsi, per poi passare all’Epo. Così fan tutti, quindi, ed infatti Armstrong ha negato di avere mai fatto pressioni sui compagni di squadra affinché si dopassero: non ci sarebbe stato un particolare doping di squadra alla Us Postal, bensì si trattava di pratiche comuni per andare in bicicletta. Difende pure il dottor Michele Ferrari, “persona brava e intelligente”, e nega di avere fallito un test al Giro di Svizzera 2001, che sarebbe poi stato coperto dall’Uci. C’è spazio anche per alcune riflessioni personali: “Questa storia era così perfetta per così tanto tempo: ho battuto il cancro, ho vinto sette Tour, con un matrimonio perfetto. Ma non era vero… E’ troppo tardi per la mia ammissione secondo la maggior parte delle persone, ed è colpa mia. E’ una grossa bugia quella che ho ripetuto tante volte. Ero un filantropo ma anche un bugiardo, adesso sto pagando un prezzo alto, ma è tutta colpa mia. Merito quello che mi sta succedendo”.
E ancora, sulle sue motivazioni per fare quello che faceva: “Il mio desiderio di vincere a tutti i costi mi ha aiutato quando ho sconfitto il cancro, ma mi ha messo nei guai dopo. Un mio grande difetto è che mi aspettavo sempre di ottenere quello che volevo. Non ci sono scuse per quello che ho fatto. Ci sono persone alle quali ho fatto del male e che non mi perdoneranno mai, lo capisco. Vorrei riuscire a parlare con queste persone direttamente, questo è uno dei miei obbiettivi”. Armstrong identifica nel suo rientro l’origine di tutti i suoi problemi: “Il mio ritorno alle corse non è piaciuto a Floyd Landis. Da li è nato tutto. Non ho ostracizzato Landis, penso che lo abbia fatto il ciclismo. Se non fossi tornato alle corse in questo momento non saremmo seduti qui”. “Rimpiangi di essere tornato?”, chiede la Winfrey; la risposta è secca: “Sì”. Infine, a proposito dell’indagine della Usada che ha rivelato tutta la verità: “Siamo qui perché c’è stata un’indagine federale e alcuni ciclisti sono stati chiamati a testimoniare. Poi l’Usada ha iniziato la sua indagine. Quando l’indagine federale è stata chiusa ero convinto di averla fatta franca. La mia reazione è stata quella di combatterla, come ho sempre fatto. Sinceramente, oggi dico che avrei voluto reagire in modo diverso”. Qui c’è forse l’unico momento di vero pentimento: “Potessi tornare indietro direi all’Usada, dopo aver visto le varie testimonianze, ‘datemi tre giorni, così che io possa chiamare un po’ di persone, la mia famiglia, i miei sponsor’. Mi piacerebbe poter tornare a quel giorno, ma non posso”. Infine, un’apertura per un futuro del ciclismo che possa essere migliore: “Amo il ciclismo, non ho rispettato le regole ma se dovessero esserci i presupposti di collaborare con una commissione indipendente, e io sarò invitato, lo farò”.
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