Ci sono giocatori che più di altri catturano attenzione e sentimenti dei tifosi. Non necessariamente i migliori, intesi come quelli che fanno la storia. Prendete Antonio Cassano: quanto di buono ha fatto sinora, a dispetto di un talento raro, non gli concede il pass per l’olimpo dei miti; eppure la gente se lo ricorda -e lo ricorderà- più di altri, nel bene o nel male. Pablo Osvaldo è un altro esemplare di questa razza, che attingendo dalla Nannini potremmo definire dei “belli e impossibili”. Nell’italiano -e nell’italiana a quanto pare- medio l’attaccante della Roma agita un certo appeal. Questo per caratteristiche oggettive che ne fanno uno degli attaccanti più completi (che non significa efficaci) del panorama italiano, stranieri inclusi. Fisicato ma non macchinoso, capace di piede e di testa, da vicino e da lontano, in terra o in volo (ah, quel gol annullato col Lecce): se anche Zdenek Zeman si è sbottonato in elogi pubblici un motivo ci sarà. Sommate al potenziale tecnico un look hollywoodiano e capirete perché, nei sondaggi popolari di televisioni e radio nazionali, Osvaldo risulta uno dei giocatori più desiderati. Col passare del tempo però, altrettanto chiaro appare il motivo per cui la storia dell’oriundo è sempre più vicina a quella della sora Camilla, che tutti la vonno e nisuno se la piglia. Si parla spesso della “testa calda” di Osvaldo, del suo rock style che spesso si abbandona a sviolinate fuori schema. Lontano dal campo però importa il giusto, ognuno di noi vive le sue contraddizioni e fuoriprogramma quotidiani. Il punto è capire come il “fuoco interiore” di Osvaldo influenza il suo gioco. Per quanto visto finora si può ipotizzare che il problema del giocatore è la mancanza del killer instinct, la freddezza dei momenti decisivi che caratterizza gli attaccanti migliori. Nelle due stagioni romaniste l’italo-argentino ha segnato 28 gol: non tantissimi ma teoricamente sufficienti per la conferma, anche perché realizzati in modi diversi e spesso dilettevoli. Il problema sono gli utili: di quei 28 gol quanti sono stati decisivi per la sorti della Roma? Non abbastanza. Il famoso rigore di Marassi (Samp-Roma 3-1), pietra dello scandalo per i tifosi più scalmanati, è stato tecnicamente emblematico: in un momento di rara urgenza il nostro se ne uscì con un passaggio al portiere Romero, che affossò i compagni prima ancora del 2-0 di Sansone. Per questo limite, “mentale” ma con valenza tecnica, Andreazzoli preferì Mattia Destro nella partita da vita o morte, la finale di Coppa Italia. Per questo limite Osvaldo resta in vendita e anche per questo nessuno lo ha ancora acquistato. Il tempo è però ancora dalla sua: come tutta la Roma americana ha una terza occasione per ripartire da zero, sarà quella buona? (Carlo Necchi)