Goodbye Mr. Brown. Era nell’aria, è successo pochi minuti fa: Mike Brown non è più l’allenatore dei Los Angeles Lakers. Il coach che in passato ha avuto il privilegio di guidare Lebron James a Cleveland, portando la squadra a una storica quanto inaspettata finale (persa 4-0 da San Antonio, era il 2007) in questi giorni aveva sentito la classica sedia scaldarsi terribilmente dopo una delle partenze peggiori di sempre nella storia della franchigia gialloviola: una vittoria (Detroit) e quattro sconfitte (Dallas, Portland, Clippers e Utah). In sè non sarebbe nemmeno un problema enorme, considerato che una stagione regolare NBA dura 82 partite e c’è tutto il tempo per recuperare (del resto anche le squadre più forti vivono strisce negative all’interno di un anno, è un fenomeno quasi fisiologico); la cosa grave però è che i Lakers sono stati la regina dell’estate, portando a termine un mercato a dir poco principesco. Un anno fa David Stern bloccava la trade che, già fatta, avrebbe portato Chris Paul allo Staples Center (quello purple&gold, non quello con il Veliero sul parquet dove effettivamente ora CP3 gioca); ad agosto Los Angeles si è rifatta, firmando il free agent Steve Nash, 38 anni ma una sapienza cestistica sconosciuta ai più, e Dwight Howard, ovvero il centro più forte della Lega. Il tutto con il sacrificio del solo Andrew Bynum, che ad ogni modo non avrebbe certo fatto scopa con l’ex Orlando Magic. Nash, Bryant, World Peace (al secolo Ron Artest), Pau Gasol, Howard, con Jamison e Meeks dalla panchina: i commenti degli addetti parlavano chiaro, sfida ai Thunder già lanciata e finale con i Miami Heat prenotata. Peccato che in preseason fosse arrivato un eloquente 0-6, ma chi se ne importa, dicevano tutti: queste partite non contano nulla. Vero, ma poi si è iniziato a giocare per la classifica, e le cose non sono cambiate. Che Mike Brown sarebbe durato poco si era capito forse già a Salt Lake City, quando Kobe Bryant lo omaggiò di un’occhiata che diceva tutto. Facile che a decidere sia stato lui in prima persona (discorso complesso che meriterebbe un capitolo a parte), ma adesso la questione è un’altra: in panchina contro Golden State (stanotte) siederà Eddie Jordan, assistente di Brown e già head coach di Washington, ma sarà lui a guidare la squadra fino ad aprile e, si spera a Inglewood, anche oltre? Per adesso non è dato sapere. Ilsussidiario.net ha contattato in esclusiva Flavio Tranquillo, che sull’esonero di Mike Brown ha dichiarato: “Me lo aspettavo, ma mi sorprendono molto i tempi e i modi. Non è certo un fulmine a ciel sereno, ma non pensavo che succedesse adesso; pensavo sarebbe stato più avanti se i risultati fossero stati stabilmente cattivi. Così presto mi sembra quantomeno strano, anche perchè è elementare che allora sarebbe stato meglio farlo durante l’estate”. Il ragionamento non fa una piega; intanto però il toto-allenatore può cominciare, non prima di aver constatato che già nell’estate 2011 in molti avevano…



… storto il naso di fronte alla scelta di Brown come capo allenatore, soprattutto in una squadra abituata a vincere segnando un punto in più degli avversari (e comunque votata più che altro all’attacco), e che la Princeton Offense varata quest’anno in luogo del celeberrimo Triangolo non ha portato i frutti sperati. Già, la Triangolo: parlare dello schema di Tex Winter non può che evocare la figura di Phil Jackson, 11 titoli NBA di cui 5 a Los Angeles. Sarà lui a tornare allo Staples? Difficile, onestamente: il ritiro estivo sembra definitivo, e in questo senso il coach Zen ha già rifiutato una proposta dei New York Knicks, così come non aiutano certo i rapporti con certa parte della dirigenza. Già una volta Jackson aveva salutato i gialloviola, per poi tornare e vincere ancora due anelli. Ci sarà spazio per la terza saga della trilogia? Chissà…



 

(Claudio Franceschini)

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