12 vittorie e 14 sconfitte. Sarebbe anche un record discreto (siamo in linea di galleggiamento per i playoff) se non fosse che la squadra che nelle statistiche di inizio stagione lo accompagna ha casa a Los Angeles, ha la maglia gialloviola e si porta dietro il nickname Lakers. Ovvero la seconda squadra più vincente nella storia del basket NBA e indiscutibilmente una delle più famose e accattivanti. Grande metropoli, grande mercato, clima mite, glamour: dopo New York viene la città degli angeli, poche discussioni in merito. Quello che sta facendo discutere è l’approccio della squadra al campionato: d’accordo che la regular season è lunga, d’accordo che c’è tutto il tempo per recuperare e che certe sconfitte andavano messe in conto, ma se in estate hai fatto arrivare sull’Olympic Boulevard gente come Dwight Howard e Steve Nash, hai confermato Pau Gasol e hai in squadra Mr. 30.000 punti Kobe Bryant (e non sono solo i punti segnati a descriverlo) ti aspetteresti i Purple & Gold in testa alla Lega, anche se magari non sulla strada verso il record di vittorie in regular season (72, Chicago Bulls 1995/1996) che in estate Metta World Peace aveva reclamato come possibile. Le vicende di inizio stagione sono note: i Lakers partono male, mettono insieme una vittoria e quattro sconfitte. Mike Brown viene licenziato, il suo assistente Bernie Bickerstaff vince le due partite seguenti e poi Buss Jr. sorprende tutti mettendo sotto contratto Mike D’Antoni e non Phil Jackson, il cui ritorno un anno e mezzo e cinque titoli dopo era scontato. Piccolo particolare: il gioco di Mike sarà anche spettacolare, bello da vedere e improntato al segnare un punto in più degli altri, ma prevede anche una difesa allegra (diciamo così) e soprattutto vittorie estemporanee, perchè di anelli il buon D’Antoni non ne ha mai visti, nemmeno quando con Phoenix dominava in stagione regolare e portava i titoli di MVP a Steve Nash. Che, aperta parentesi, non gioca dalla terza gara stagionale, dopo un infortunio al ginocchio rimediato nel derby contro i Clippers. Chiusa parentesi? No, perchè dopo 23 gare con Steve Blake e Chris Duhon ad alternarsi in qualità di playmaker il ritorno del canadese è vicino; e proprio questo obbliga il coach a prendere pennarello e lavagnetta e disegnare la squadra che sarà. Piccolo riassunto: finora i Lakers hanno giocato con Howard come centro (per forza) e Gasol ala grande. Peccato che il catalano sia un lungo da post basso, con un quoziente cestistico sopra la media, che utilizzato nel modo giusto farebbe (e ha fatto) sfracelli. Con D’Antoni si limita ad allargare il campo e tirare da tre punti sugli scarichi. Una sorta di blasfemia rapportata al basket, tanto che Gasol non ce l’ha fatta a stare zitto e in maniera diplomatica ma nemmeno troppo ha fatto sapere che lui così non ci sta. Per lui si è parlato di cessione a febbraio, per acquisire un giocatore più funzionale; andrebbe anche bene, ma dove lo peschi poi un giocatore con la sua comprensione del gioco? Ma i cambiamenti non sono finiti qui, perchè Mike ha accorciato le rotazioni come suo solito, riducendole a otto giocatori otto. Risultato? Jordan Hill, buon lungo da panchina, è sparito nel dimenticatoio; Antawn Jamison, due settimane da urlo tra novembre e dicembre, non utilizzato per scelta tecnica nelle ultime due, coincise peraltro con il rientro proprio di Gasol dall’infortunio. Al contrario è esploso Jodie Meeks, guardia prelevata dai Sixers che, arrivato con i crismi del tiratore, ha anche offerto difesa e grinta. E allora, ecco l’idea d’antoniana:
Siccome amo giocare con quattro piccoli che girano intorno al centro (Run & Gun puro) e siccome Pau non può essere il mio 4 titolare (pare se ne sia accorto), il catalano diventa il mio centro di riserva. Facendolo però partire da titolare come ala grande, per poi farlo sedere in luogo di Metta World Peace (per lui ottimo inizio di stagione), che diventa il sesto uomo; poi, dopo un paio di minuti, dentro Gasol per Howard, e quindi da centro. In questo modo il ruolo di centro sarebbe coperto per 48 minuti in maniera funzionale, e sarebbe anche preservata una bozza di sistema alla “Seven seconds or less”. Tutto bene, ma come fare con gli esterni? Le quotazioni di Darius Morris, playmaker da Michigan, sono in salita: Mike ne vuole fare la guardia di riserva. Non di Bryant, però: di Jodie Meeks, che partirebbe in quintetto con Kobe spostato in ala piccola. Il rientro di Steve Nash dovrebbe, nei piani del coach, amalgamare il tutto. Ricapitolando: Nash-Meeks-Bryant-Gasol-Howard. A febbraio, poi, possibile intervento sul mercato per portare in casa un esterno che abbia punti nelle mani. Restano due punti oscuri. Numero uno: che fare nei finali di partita punto a punto? Howard o Gasol? Entrambi? E la difesa del fu Ron Artest? Numero due, che si collega poi al numero uno: se la tattica può avere senso contro squadre prive di lunghi dominanti (è il caso dei Miami Heat), la coperta appare leggermente corta se si tratta di affrontare i Grizzlies di Randolph-Marc Gasol o i Clippers di Griffin-Jordan. Due squadre della Western Conference, con cui i Lakers, se vorranno centrare le Finali, dovranno fare i conti. Dopo la risicata vittoria contro Charlotte (stoppata di Dwight Howard e clamoroso layup sbagliato dai Bobcats nell’ultima azione, sul 101-100) i Lakers sono entrati in un periodo di riposo di tre giorni, una rarità all’interno dei ritmi frenetici della NBA. Il primo appuntamento per i lacustri è sabato notte, in casa dei lanciatissimi Golden State Warriors. Nash è già in palestra e si allena a pieno ritmo: ce la farà? E come gireranno i nuovi Lakers? La sensazione è che gli esperimenti non finiranno qui. La speranza a Los Angeles è una sola: che Mike D’Antoni trovi la chiave prima che la qualificazione ai playoff sia compromessa.
(Claudio Franceschini)