Quando il tendine d’Achille di Kobe Bryant ha fatto “pop” (le parole sono sue) la stagione dei Los Angeles Lakers è andata a farsi benedire, e con essa – forse – il futuro prossimo della franchigia più celebre della NBA (i Boston Celtics non sarebbero troppo d’accordo: diciamo che stanno sullo stesso piano, e pace). Dell’anno travagliato dei gialloviola si è già detto e scritto tutto: non vale la pena approfondire. Basti dire che hanno girato alla pausa dell’All Star Game con un record da 25 vittorie e 29 sconfitte, prima di riprendersi grazie a un 19-8 dopo il weekend di Houston. “Porterò questa squadra ai playoff, a costo di morire sul campo” aveva detto Bryant; adesso quelle sue parole suonano come una triste profezia, e qualcuno dirà che l’infortunio maledetto, che a Los Angeles in questi giorni costituisce il 100% degli argomenti di discussione degli abitanti, non poteva che essere dietro l’angolo, visto il folle minutaggio che il Mamba si autoconcedeva (non è certo Mike D’Antoni a decidere quando e per quanto farlo riposare). Ma Kobe è uno stakanovista, un perfezionista, un innamorato del gioco; nell’intervista post gara – commovente, per chi l’ha ascoltata – c’era tanta rabbia e frustrazione, ma anche la consapevolezza che non si potesse fare diversamente, nemmeno con il senno di poi, che rimanere sul parquet per 48 minuti al Rose Garden di Portland (47 punti) e per tutta la gara fino al crack nella vittoria contro Golden State. Nella prima senza di lui, i Lakers hanno battuto niente meno che i San Antonio Spurs, e mantengono vive le speranze di post season. Sono padroni del loro destino: devono solo battere Houston e sarà fatta (oppure sperare che Utah perda una delle due gare rimaste). Il punto però non è questo: ai playoff l’eliminazione arriverebbe subito, contro la stessa San Antonio o, più probabilmente, gli Oklahoma City Thunder. Certo: arrivare a giocarsi almeno il primo turno è un obbligo morale. Per Kobe Bryant, e perchè la metà gialloviola della città degli angeli, per la storia che si porta dietro, non può rimanere senza playoff. Sarebbe comunque un mezzo fallimento anche così: se hai Dwight Howard in squadra, se hai Pau Gasol e Steve Nash (ancora infortunato, ma vicino al rientro) ti aspetteresti che la squadra sia nelle prime tre posizioni della Western Conference. Questa è un’altra storia: quello che interessa ora tutto lo staff dei Lakers è capire cosa succederà nei mesi a venire. Detto che da una rottura del tendine d’achille si recupera mediamente in 6-9 mesi, e detto che Bryant ha spesso dimostrato di avere una soglia di sopportazione del dolore sconosciuta ai più, adesso si aprono varie opzioni che vanno ponderate molto seriamente. Tecnicamente sono tre, e possono fare tutta la differenza del mondo. La premessa, naturalmente, è che Dwight Howard firmi al termine della stagione: su di lui ci sono tanti dubbi, e questo infortunio può essere un’opportunità per il centro di sentirsi maggiormente parte del progetto (nella notte ha risposto con una prova da 26 punti e 17 rimbalzi), oppure la mazzata finale sulle speranze di avere il numero 12 come uomo franchigia del futuro. Ammettendo però che Howard faccia ancora parte di questa squadra (non dovesse farlo, si forzerebbe il recupero di Bryant), ecco le opzioni in mano ai Lakers.



Bisogna considerare che Steve Nash avrà 40 anni il prossimo febbraio, e già in questa stagione ha pagato dazio a un fisico che sta cominciando a mollare. Per i Lakers potrebbe essere l’ultima occasione per vedere la coppia formata dal canadese e da Bryant andare a caccia di un anello (anche se il contratto del numero 10 è triennale); dunque, Los Angeles potrebbe avere fretta di recuperare il suo leader, forzando i tempi e rimettendolo sul parquet già per l’inizio della prossima stagione. Tecnicamente si può fare: nella pratica è un grandissimo rischio. La seconda parte di questa opzione è una soluzione “alla Chicago Bulls”, che hanno dovuto fare i conti con la rottura dei legamenti di Derrick Rose: impostare una stagione comunque competitiva, andando a reperire sul mercato elementi di esperienza in grado di affrontare una stagione di difficoltà ma comunque in ottica playoff (ricordiamoci che una coppia di lunghi come quella dei Lakers non ce l’ha nessuno, forse con la sola eccezione dei Thunder) e “sopravvivere” fino al rientro del Mamba, avvenga esso a metà stagione regolare, per i playoff o addirittura nel 2014/2015.



Mette i brividi anche solo a pronunciarla, eppure sarebbe la soluzione più sensata: i Lakers possono utilizzare la amnesty clause, ovvero la nuova regola che permette a una franchigia di tagliare un giocatore, continuando a pagargli il resto del contratto ma senza che questo vada a incidere sul salary cap. In pratica, “amnistiando” Bryant Los Angeles risparmierebbe milioni di dollari in tasse, che andrebbero reinvestiti sul mercato per presentare a Kobe una squadra competitiva – e ringiovanita – per il suo ritorno. Si può fare: 

La regola impone che un giocatore tagliato con questa clausola non possa essere rifirmato prima della scadenza naturale del contratto, e per Bryant questa scadenza sarebbe proprio nel luglio del 2014. Tuttavia ci sono dei problemi: i Lakers perderebbero la possibilità di tagliare un altro giocatore “amnistiabile” (Pau Gasol, Steve Blake e Metta World Peace i tre che possono essere salutati con questa regola, che può essere usata una sola volta), e in più riprendere Kobe nel 2014 significherebbe perdere i “Bird Rights”(concetto complicato che deve il suo nome a Larry Bird, basti dire qui che tali diritti permettono una maggior flessibilità a livello contrattuale). Così facendo – lo dice la regola della amnesty clause – qualunque squadra sotto il monte ingaggi avrebbe la precedenza sul giocatore, potendo formulare un’offerta per lui. Insomma: scenario complicato, che ha fatto dire al gm dei Lakers Mitch Kupchak “non prendiamo nemmeno in considerazione l’ipotesi”.



 E’ triste, ma la terza opzione prevede che l’infortunio contro Golden State sia l’ultima immagine di Kobe Bryant su un campo da basket. Lo immaginavamo annunciare il ritiro sollevando un trofeo: potremmo non vedere quella scena. A inizio stagione il Mamba aveva annunciato che per come stavano le cose pensava al 2013/2014 come la sua ultima annata da giocatore; in attesa del ritiro della maglia, e di un posto nella dirigenza. Però, questo 2013/2014 il numero 24 dei Lakers rischia di vederlo tutto dalla lista infortunati. Conoscendo la sua indole di combattente è impensabile anche solo crearsi in testa l’idea di un ritiro del genere, ma chissà: dipenderà da come il suo fisico reagirà una volta rientrato. Dovesse essere così, i gialloviola avrebbero una sola strada possibile: la rifondazione immediata, che passerebbe attraverso l’amnistia di uno dei tre sopra citati e lo scambio di giocatori dal contratto pesante o che hanno ancora mercato, in modo da far scendere il salary cap e ricostruire, accettando (è il processo consueto nelle leghe americane) qualche anno senza playoff o comunque di ricostruzione e risultati modesti prima di tornare a vincere. I Buss e Kupchak sperano che l’uomo franchigia diventi Dwight Howard, ma questa, come dicevamo, è la seconda parte del dilemma. Ad ogni modo, una cosa è certa: a decidere sarà Kobe Bryant. Come ha sempre fatto, anche solo per una pausa di più durante una partita. In bocca al lupo, Mamba.

 

(Claudio Franceschini)