LeBron James ha guidato i Cleveland Cavaliers al primo storico titolo nella storia del basket NBA e, come detto, è stato giustamente insignito del premio di MVP delle Finali, cioè Most Valuable Player (il miglior giocatore). E’ la terza volta per lui: gli era già capitato nel 2012 e 2013, quando i suoi Miami Heat si erano issati sul tetto della pallacanestro americana e lui per la prima e seconda volta si era messo anelli alle dita. Il premio di MVP delle Finali è stato inserito per la prima volta nel 1969: curiosamente la prima volta lo vinse Jerry West, che aveva perso quelle Finali con i suoi Los Angeles Lakers (non è più successo nella storia). Intitolato al grande Bill Russell, questo premio ha visto trionfare sei volte Michael Jordan, naturalmente un record assoluto; sono invece tre i premi ricevuti da Magic Johnson che nel 1980 lo vinse da rookie (al primo anno in NBA) ripetendosi poi nel 1982 e 1987. LeBron James raggiunge a quota 3 Shaquille O’Neal (tre consecutivi con i Lakers, tra il 2000 e il 2002) e Tim Duncan, che è stato MVP con i San Antonio Spurs nel 1999, 2003 e 2005. 



Ha vinto il terzo titolo NBA della sua carriera ed è, giustamente, insignito del premio di MVP delle Finals. Gara-7 vinta dai Cleveland Cavaliers segna il definitivo arrivo del Re: non tanto per le cifre (comunque mostruose: tripla doppia da 27 punti, 11 rimbalzi e 11 assist pur tirando 9/24 dal campo) quanto per il modo in cui ha saputo riprendere per i capelli una serie che sembrava morta e sepolta dopo il 2-0 iniziale e dopo il 3-1 con cui i Golden State Warriors erano tornati alla Oracle Arena avendo il primo match point a disposizione. I 41 punti di gara-5 e gara-6 rappresentano tutto di un giocatore che, alla sesta finale consecutiva (la settima in totale) mette al dito il terzo anello (lo riceverà ufficialmente all’inizio del prossimo anno): Cleveland torna a festeggiare un titolo professionistico, contando tutte le leghe principali, dopo 68 anni. Era il quando gli Indians del baseball battevano 4-2 i Boston Braves (oggi ad Atlanta, dopo essere passati da Milwaukee) e ottenevano le seconde World Series dopo quelle del 1920. Da allora più niente, se non lo scomodo nomignolo di “Mistake on the lake” (l’errore sul lago); quando ha lasciato il nativo Ohio per South Beach, LeBron James da queste parti ha ricevuto il trattamento che si riserva più o meno a un traditore – anche da parte della società. Lui lo aveva detto: vado, vinco e torno per festeggiare con voi. Ci è riuscito: è dovuto passare attraverso due finali perse con i Miami Heat (due vinte) e lo scotto del 2015 quando sempre Golden State lo aveva battuto. Oggi, James ha dimostrato che è ancora il giocatore che sposta maggiormente gli equilibri all’interno della Lega: si è avventato sulla preda Warriors e ha ottenuto il titolo più bello. Quello del riscatto, quello della definitiva consacrazione e della pace ristabilita con la sua gente. A 31 anni (ne compirà 32 a dicembre) può dominare ancora: Michael Jordan aveva 35 anni quando vinse il sesto e ultimo titolo della sua carriera, Kobe Bryant doveva compierne 32 quando ha infilato al dito il suo quinto anello. Il futuro è ancora suo: Golden State ci riproverà il prossimo anno, ma James sarà lì ad aspettarla.

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