Ad un certo punto sembrava quasi che avessi torto… Non essendo possibile, Cleveland ha vinto salvando in corner la pallacanestro confermandone alcuni sacri comandamenti che Golden State ha inutilmente cercato di cancellare con il suo basket transgender. Stiamo parlando delle finali NBA, campionato di basketball professionistico.
“Campionato del mondo” – perché gli Americani per meno di quello non ci si mettono neanche. Golden State, la squadra del momento, una (quasi) imbattibile armata di fucilieri da 3 punti attuale detentrice del titolo, e sul fronte opposto i Cleveland Cavaliers, mai arrivati alla vittoria finale nella loro storia. Tutto bello?
No, per carità! I tempi dei miei amati San Antonio Spurs con la loro passing game da farti levitare in estasi appaiono lontanissimi. Questa è stata una battaglia, violenta, cruenta, spietata e per questo – a tratti – affascinante. Una battaglia vinta sì da una squadra, ma dominata da un eroe che con il suo sangue, il suo sudore e le sue lacrime, con la sua volontà e determinazione, con una forza fisica da Braccio di Ferro appena “spinaciato”, ha da solo (o quasi) sconfitto il nemico.
Quel perfido nemico che stava trasformando un gioco fatto di tanti, splendidi fondamentali, in un ipnotico tiro al bersaglio. Non sono un cieco ammiratore di LeBron James: ho sbuffato di insofferenza ogni qualvolta si è guardato bene dal passare la palla una-volta-che-fosse-una per tutta la durata dei 24 secondi, con i suoi compagni ad aspettare inutilmente di venir coinvolti nell’azione; ho sbuffato quando ha scelto di forzare una conclusione piuttosto che passare ad un compagno magari pure smarcato…
Ma i fatti sono fatti ed i numeri numeri. LeBron non ha vinto il torneo di tiro al piattello della polisportiva californiana o sbancato lo stand dei pesciolini rossi nei vasetti di vetro della fiera di Oakland. LeBron ha fatto più punti, raccattato più rimbalzi, regalato più assists e recuperato più palloni di qualsiasi altro giocatore sceso in campo.
Ed ha rifilato delle stoppate da far piangere le famiglie (degli stoppati). Quella su Iguodala (mai vista roba del genere) ha probabilmente dato l’ultima spallata all’inerzia della partita. Sì, perchè James difende anche. Curry no. Sarà per caso che sul tiro decisivo della partita il difensore era Curry? Piaccia o no, ieri sera Lebron James ha fatto il giocatore di pallacanestro ed ha vinto ciò che di più prestigioso si può vincere a pallacanestro.
Ed I suoi nemici? “Much ado about nothing” avrebbe detto Shakespeare se fosse stato sugli spalti tra i ventimila tifosi nell’assordante bolgia dell’Oracle Arena. Tanto da fare per nulla. Poca mira sotto pressione, poca difesa, inutili barocchismi nei passaggi… Lo so, facciamo molto in fretta a creare eroi e facciamo ancora più in fretta a farli fuori. E farli fuori …dà più gusto, perché in qualche modo ci permette di cullarci al pensiero che in fondo siamo tutti dei gran somari, noi, e soprattutto quelli che si pensano eroi.
Però… però io posso dire che in questo gioco alla Curry&Thompson non ho proprio mai creduto ed oggi mi ergo a profeta e sommo sacerdote in difesa dell’ortodossia del basketball. A parte le stupidaggini, e soprattutto senza dimenticare che la pallacanestro è un gioco, io saluto con letizia la vittoria dei Cavaliers perché è bello vedere che anche nello sport – come nella vita vera – la realtà è sinfonica (questo l’avrebbe detto Von Balthasar): ci vogliono canestri, assists, rimbalzi, stoppate, difesa. E soprattutto ci vuole ancora cuore. E il cuore cerca sempre la sua casa. “Home!” L’ha detto anche Lebron James, con le lacrime agli occhi. Un bambino lo capisce bene. E’ bello che lo capisca anche un milionario atleta professionista.