La rivincita del campione. Kevin Durant vince il titolo NBA 2017 e ci aggiunge il trofeo di MVP delle Finals, ovvero il miglior giocatore nella serie che ha deciso il campionato. Lo fa a pieno titolo: le medie dicono 35,2 punti, 8,4 rimbalzi e 5,4 assist, cinque gare su cinque sopra i 30 punti e il killer instinct nei momenti decisivi, come la tripla in transizione che ha sancito il sorpasso nel finale di gara-3, facilmente uno degli istanti che maggiormente hanno inciso nel 4-1 dei Golden State Warriors. Kevin Durant si prende l’MVP a scapito di uno Steph Curry che ha sfiorato la tripla doppia di media, e che per la seconda volta non risulta il miglior giocatore delle Finali (nel 2015 era stato Andre Iguodala): più che sulla presenza del numero 30 nei momenti decisivi (la quale non è minimamente in discussione), il dato fa riflettere sulla potenza e sul livello del roster degli Warriors, perchè un giocatore che chiude con 27-8-9 (numeri arrotondati) e non è MVP delle Finals rappresenta la pura fantascienza. Durant invece si prende la rivincita: la scorsa estate la sua decisione di abbandonare Oklahoma City (con cui aveva giocato le Finals del 2012) e Russell Westbrook per unirsi al progetto della Baia aveva fatto storcere più di un naso, esattamente come il LeBron James che era andato da Dwyane Wade (portandosi dietro Chris Bosh) per vincere finalmente il titolo. Storie diverse, percorsi diversi: tanti dimenticano che questi Warriors sono stati costruiti soprattutto con il draft (da cui sono arrivati Curry, Klay Thompson e Draymond Green) e pochi hanno perdonato a Durant la “scorciatoia”. Perchè negli Stati Uniti è così: c’è una sorta di codice “etico” per cui se sei un campione non devi cercare l’aiutino. Detta in maniera sintetica, che KD35 sia andato a giocare nella squadra migliore del mondo non è andata giù.
L’unico modo per zittire critici e malelingue era quello di vincere il titolo: Durant lo ha fatto, con tanto di MVP. “Per me la sfida era cercare di capire come aiutare questi giocatori ad essere migliori” ha commentato l’ala di Golden State dopo il trionfo. Ha detto di non cercare la vendetta su chi lo prendeva in giro e lo criticava, ma di aver lavorato al massimo giorno per giorno, “nessuno lavora più seriamente di me, sapevo che prima o poi ce l’avrei fatta”. Un Durant che si è autocelebrato nel riconoscere la grandezza di LeBron James (“soltanto lui può guardarmi negli occhi”), ma anche un Durant che, come già era accaduto quando aveva vinto l’MVP della regular season (ai tempi di Oklahoma) ha tributato onore ai compagni: “Vogliamo parlare di Patrick McCaw, un rookie che gioca minuti importanti nelle NBA Finals?” ha detto. “Vogliamo parlare di Zaza Pachulia, di Steph che ha giocato come un ‘cagnaccio’?”: Durant si gode la festa, e sa che non è stato facile: chiaramente questi Warriors erano i grandi favoriti della vigilia, ma chi ha giocato a basket sa bene come avere il miglior roster e tre-quattro All Star insieme non significa vincere in automatico. “Ci avete chiamato un superteam fin dal primo giorno, ma tanti superteam in passato non hanno vinto. Noi sì”. Qui sta tutta la differenza del mondo: Kevin Durant entra a far parte della lista dei campioni NBA e di quelli che sono riusciti a vincere un MVP delle Finali. Succede a LeBron James, con il quale si è dato battaglia per cinque splendide partite. “Dovremmo rifarlo” ha detto KD al 23 di Cleveland dopo gara-5. Chissà che non succeda già il prossimo anno.