Era il 14 agosto 1988, 25 anni fa, quando Enzo Ferrari si congedò da questo mondo, lasciando dietro di sé l’immensa eredità che forse solo in questi anni di crisi riusciamo pienamente a capire. Il lavoro, la fatica, la capacità, l’audacia: sue caratteristiche peculiari, quasi un marchio di fabbrica, che sono tutt’ora esemplari e lo saranno per generazioni. Sono stati spesi fiumi di inchiostro su quello ha costruito Enzo Ferrari, quella che non è più neanche da considerare come “una” casa automobilistica, ma un vero mito – il “Mito Ferrari” – l’orgoglio di una intera nazione, forse la massima rappresentazione dello stile e della tecnica italiana nel mondo. Quanto all’automobilismo sportivo, raccontare della Ferrari significa raccontare della storia stessa delle corse, percorrerne la spina dorsale, scoprirne certo la principale protagonista. Tanto più nella F.1, dove il “Cavallino Rampante” è presente da sempre, ininterrottamente dal lontano 1950, anno del primo Campionato Mondiale. La Scuderia oggi ai vertici della tecnica, lo straordinario polo supertecnologico di Maranello dei nostri giorni, affonda le radici nella piccola fabbrica di mattoni rossi con l’insegna gialla nata oltre cinquant’anni fa; un’altra Ferrari, sicuramente meno tecnologica e più artigianale, ma che attraversando il ‘900 disegna uno straordinario spaccato di storia italiana, non solo sportiva. Fu forse Wilfredo Ricart l’uomo che fece scattare in Enzo Ferrari, modenese, appassionato di corse e di motori, pilota discreto ma non eccelso, grande “agitatore di uomini” – come egli stesso amava definirsi – l’idea di fabbricare proprie vetture da competizione. Nel ’39 infatti, Ricart divenne direttore tecnico dell’Alfa Romeo e la sua prima mossa fu di interrompere la collaborazione con la “Scuderia Ferrari”, sotto le cui insegne correvano fin dal 1929 in ogni sorta di competizione le vetture del Biscione. L’accordo prevedeva, oltre ad una sostanziosa buonuscita, che Ferrari per quattro anni non intraprendesse alcuna attività agonistica sotto con il nome della Scuderia o utilizzando il già popolare Cavallino Rampante. Fu così che nel 1940 Ferrari, avvalendosi di alcuni tecnici ex-Alfa Romeo che lo avevano seguito in quella nuova avventura, costruì la sua prima vettura – la “815” – chiamandola “Auto Avio Costruzioni”. La data dello storico esordio in corsa fu il 28 aprile dello stesso anno alla XIII edizione della Mille Miglia, piloti Alberto Ascari e Lotario Rangoni. Si dovette attendere la fine del conflitto mondiale per vedere la prima Ferrari che portava il nome del suo fondatore: la “125 S” del 1947, esordio in corsa l’11 maggio a Piacenza, categoria sportcar, pilota Franco Cortese; e fu lo stesso Cortese ad ottenere la prima storica vittoria al GP di Roma, sul circuito di Caracalla il 25 maggio dello stesso anno. La prima di una innumerevole serie di successi in ogni tipo di competizione che è impossibile citare qui, nei nostri angusti spazi. In Formula Uno, naturalmente, ma anche nella Mille Miglia, a Le Mans, a Daytona, senza citare l’incredibile fascino delle granturismo da strada che fin dagli anni ’50 si affermano come le più prestigiose auto del mondo. Fino a quel 1988 in cui Enzo si spense serenamente nella sua casa di Modena e, pochi giorni dopo, Gerhard Berger e Michele Alboreto segnarono una storica, indimenticabile doppietta a Monza, nel GP d’Italia dopo mesi di sconfitte ed insuccessi. Fu questo l’ultimo, grande intervento, dall’alto, del Drake. Un uomo duro, forse. A volte aspro e difficile. Segnato dalle tragedie, anche famigliari. Come la morte del figlio prediletto Dino dalla quale non si riprese mai completamente. Giurò di non affezionarsi mai più a nessun pilota dopo la disarmante sequenza di tragedie che lo privò della sa intera squadra di giovani piloti fra il 1957 e il 1959. Musso, Collins, Castellotti, De Portago ed Hawthorn morirono tutti dopo essere stati trattati da Enzo come figli. Per esempio, Peter Collins viveva con la moglie, l’attrice Louise King, nella villa dei Ferrari a Modena. Si costruì una sorta di corazza che nascondeva una sensibilità fuori dal comune senza la quale, del resto, non avrebbe potuto costruire quello che ha costruito. Ci ricascò con Lorenzo Bandini e ne ebbe una nuova, terribile tragedia al GP di Monaco del 1967. E poi, è risaputo, con Gilles Villeneuve anche lui tragicamente perito nel 1982. Ma questo era Ferrari. E la Ferrari. Per questo era grande e ha costruito qualcosa di grande. E tutta l’Italia non può che essergli grato.