Tutti stanno parlando di Ayrton Senna e l’ho fatto più volte anch’io celebrando l’anniversario della sua scomparsa. Certo, Senna era un personaggio universale, un uomo eccezionale, un pilota dal talento straordinario e dalla personalità unica e magnetica. Non un semplice “grande” dello sport, ma qualcosa di più, di una eccezionalità intuibile quasi istintivamente e rintracciabile nella sua romanzesca storia, in pista e fuori. E’ quindi sacrosanto ricordarlo per quel simbolo, specie per il Brasile, che era e che, nonostante il tempo che passa, è ancora oggi. Ma per quelle strane coincidenze del destino spesso imperscrutabili, la sua figura e la sua storia si intrecciano in maniera indissolubile con quella di un altro pilota, peraltro suo coetaneo. Si potrebbe dire il suo opposto, la sua “nemesi”. Si chiamava Roland Ratzenberger ed in quel week-end maledetto entrato nella memoria collettiva come quello che ha portato via il Mago di San Paolo, fu il primo ad incontrare il suo destino. Se Ayrton Senna era il talento puro sbocciato giovanissimo e che da dieci anni dominava le scene del motorismo mondiale raccogliendo milioni di fan, Roland era quasi uno sconosciuto per il grande pubblico, arrivato nel palcoscenico più importante per chi corre con una macchina, dalla porta di servizio e dopo una lunga e tenace gavetta in tutte le serie inferiori in patria, in Europa ed in Giappone. Roland era nato a Salisburgo, in Austria, terra di grandi piloti, nel 1960 come Ayrton, ma non era stato baciato dallo stesso talento naturale. Una cosa però condivideva con lui: la passione per le corse, la tenacia di crederci sempre e la voglia di arrivare, prima o poi, alla Formula 1, il suo sogno. Per questo iniziò in Germania, con la Formula Ford negli stessi anni in cui un giovane brasiliano stava già spopolando nella Formula 3 inglese. Roland non aveva grandi mezzi finanziari e si doveva arrabattare come poteva per trovare un sedile, spesso a pagamento, fino ad arrivare alla inglese nel 1986, quando Ayrton aveva già vinto in F.1 con la Lotus. Lui intanto si era dedicato all’endurance partecipando a cinque edizioni della 24 Ore di Le Mans, ma senza successo ed aveva cercato fortuna in Giappone dove finalmente, nel 1990, riuscì a vincere diverse gare in F. Nippon. Così, due anni dopo quando Ayrton era già triplice Campione Mondiale, tornò in Inghilterra in F.3. Roland non era uno che si arrendeva facilmente e, dopo anni di “fatica e botte” – come un Oriali della F.1 – ecco la grande occasione. Nel 1994 ci sarebbe stato anche lui. Certo, non con la fantascientifica – almeno sulla carta – Williams che usava Ayrton, ma con una ben più prosaica Simtek, vettura costruita da una debuttante scuderia inglese fondata da Nick Wirth, ex tecnico della March. Debuttò nella patria di Ayrton, in Brasile, nel primo appuntamento della stagione, ma non si qualificò. Nell’anacronistico circuito di Aida, una sorta di kartodromo “allargato”, fu per la prima volta al via di una gara, finendo undicesimo, il che, tutto sommato, si poteva considerare un ottimo risultato per un binomio di debuttanti. E poi Imola. Ed è qui che il suo destino ed il destino di quel pilota che lui avrebbe voluto essere si incrociarono indissolubilmente. Nelle prove ufficiali, sabato 30 aprile, Roland perse il controllo della sua vettura a causa dl cedimento di un elemento dell’alettone anteriore alla curva Villeneuve e si schiantò contro il muro. Morì pochi minuti dopo all’ospedale di Bologna, trasportato lì dallo stesso elicottero che il giorno dopo compì lo stesso tragitto con a bordo il brasiliano. Sulla reazione di Ayrton Senna alla morte di Ratzenberger, un pilota che non conosceva, si è detto e scritto molto, ma forse per intuire il suo stato d’animo basta quella bandiera austriaca che si era portata in macchina da estrarre in caso di vittoria e che invece fu ritrovata fra i rottami della Williams, intrisa di sangue. L’incredibile vicenda parallela di Ayrton e Roland ci riporta a quello che è forse il fascino più profondo delle corse, un mondo dove grandi campioni acclamati dalle folle e veri e propri appassionati capaci di sacrificare tutto in nome di un “fuoco” inestinguibile che li muove, rischiano allo stesso modo, alla perenne ricerca di un limite che non è raggiungibile, di “qualcosa” che li soddisfi e che va al di là di una macchina veloce. Per questo Roland Ratzenberger, eroe ordinario, è un esempio per tutti. Esattamente come Ayrton. Ebbene si, ancora uniti.