Benvenuti sulla giostra di Montreal. In controtendenza con quanto successo fino ad ora e con una certa sorpresa da parte di tutti, l’impero Mercedes è scricchiolato al cospetto dello straordinario e spettacolare circuito sull’Isola di Notre Dame che è sicuramente all’altezza del nome che gli è stato assegnato, quello di Gilles Villeneuve. E nel corso di una gara scoppiettante e ricca di colpi di scena moltissimi protagonisti hanno avuto lo spiraglio per cogliere importanti risultati. I soliti noti Rosberg, Hamilton e poi ancora Rosberg, prima di tutto. Ma anche la Red Bull finalmente competitiva e costante casualmente dopo il rinnovo del contratto di Adrian Newey, la Williams che ha visto un Felipe Massa in palla come non lo si conosceva dal 2010, la Force India che si è ritrovata un Perez a lungo secondo e perfino la McLaren che grazie alla solita versione-formato-Canada di Jenson Button ha colto un grande quarto posto in rimonta. Insomma, possibilità ed occasioni per tutti. Chi è stato abile e scaltro come Daniel Ricciardo – a proposito, quando fortuna, audacia, controllo e costanza sono doti che convivono insieme il loro prodotto si chiama “campione” – e chi lo è stato meno come Hamilton, Massa o Perez: ma tutti, almeno per qualche giro, hanno accarezzato un sogno. Proprio tutti? No, in effetti il caleidoscopio di Montreal, l’ottovolante causato dai guai meccanici della Mercedes, la festa dell’incertezza andata in scena fra la spettacolare staccata del “Muro dei Campioni” e i velocissimi tratti di pista lambiti dall’estuario del fiume San Lorenzo, aveva dimenticato un invitato. La Ferrari. Scomparsa desolatamente proprio nella corsa in cui erano promessi e previsti gli “step” di evoluzione decisivi per riavvicinarsi ad una competitività accettabile. Una vera e propria débâcle, il punto più basso della gestione Montezemolo da quindici anni a questa parte, un encefalogramma piatto che non riesce ad intravedere via di uscita. Il sesto posto di Alonso e l’ultimo – perché di tale si tratta – di Raikkonen suonano come una sentenza in cassazione su come la squadra in questo momento non abbia alcuna idea di come colmare il gap tecnico e psicologico che la divide dalla testa del gruppo. Ancora: il sesto posto del povero asturiano con Hamilton al traguardo e senza il botto Massa-Perez a gara finita corrisponde ad un eloquente nona piazza senza quasi mai essere inquadrato dalle telecamere se non in fase di sorpassi subiti. Compreso quello assai simbolico di Felipe Massa. Gettare la prima pietra contro i perdenti è altrettanto facile che salire a posteriori sul carro dei vincitori e pertanto non credo sia né elegante né giusto far venire meno il supporto – seppure soltanto esterno – alla compagine di Maranello in un momento così delicato. Ma non penso sia fare del disfattismo il dire che la sensazione è quella che avevo adombrato come pericolo al momento dell’epurazione di Stefano Domenicali, ovvero che la squadra si potesse sedere sull’individuazione del colpevole, sull’allontanamento del capro espiatorio. Marco Mattiacci, al quale va ovviamente rinnovata la fiducia incondizionata, si è fino ad ora espresso per proclami dall’effetto molto aziendalistico come “pretendo una forte autocritica” ma dai riflessi pratici assai relativi. Non è certo la prima volta che la Ferrari affronta un periodo di crisi di tecnica e a volte tali crisi hanno coinciso con periodi di assenza di risultati e vittorie ben più lungo dell’anno abbondante – era il 12 maggio 2013 – che ci separa dall’ultima vittoria del Cavallino. Ma forse la situazione attuale di questa Formula 1 richiede di affrontare il problema in un modo nuovo, diverso forse da come lo avrebbe affrontato lo stesso Drake quando era al timone della sua meravigliosa creatura. Per esempio, nel 1973 sulle ceneri di una stagione a dir poco fallimentare, Ferrari scelse come direttore sportivo Luca di Montezemolo, giovane manager rampante ma “illibato” in fatto di corse come lo è oggi Mattiacci. Ma insieme a lui prese un pilota che gli era stato segnalato da Clay Regazzoni e che aveva delle doti da collaudatore fantastiche. Si chiamava Niki Lauda, passò ore ed ore in pista trasformando la “312 B3” da una disastrosa bagnarola da fondo gruppo ad una macchina da nove pole position in stagione. E qualcosa di simile fece anche il grande e rimpianto Michael Schumacher che “guidò” Ross Brawn, dopo quattro tentativi, alla costruzione di una vettura finalmente dominante nel 2000. Insomma, oggi la vecchia politica non si può più applicare: il pilota non sviluppa nulla e l’ingegnere, se ha sbagliato qualcosa nel progetto iniziale, ha pochissimi termini di paragone per correggere la rotta. Per questo pensare “solo” al futuro, leggi 2015, non è una soluzione concreta e percorribile, ameno di non introdurre un ingrediente assolutamente nuovo nel cocktail: quello che nella testa di Montezemolo avrebbe dovuto essere l’ingaggio di Adrian Newey che, oggi come oggi, conta parecchio più che l’ingaggio di un Raikkonen o di un Vettel. Senza questo elemento di discontinuità, il 2015 sarà conseguenza del 2014: per questo il bandolo della matassa va scovato subito. Senza lasciare che la depressione dei piloti continui a crescere e che continui la caccia alle streghe dell’attribuzione delle responsabilità. Questa è la chiave del lavoro di Mattiacci. E quella su cui si gioca il proseguio di questa fino ad ora disgraziata stagione.



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