I giorni bianconeri. Di nuovo. Dopo tanti anni. Come quel primo scudetto della mia memoria, 1971-1972, il tredicesimo. Formazione: Carmignani, Spinosi, Marchetti, Furino Morini, Salvadore, Causio, Haller, Anastasi, Capello e Bettega. Sono le vittorie più belle quelle che arrivano così. Questa volta poi il paradiso dello scudetto arriva dopo l’inferno di Calciopoli, il purgatorio della serie B e la frustrazione di due settimi posti di fila ovvero l’onta della mediocrità. E adesso in vetta! Formazione base: Buffon, Barzagli, Bonucci, Chiellini, Liechtsteiner, Vidal, Pirlo, Marchisio, Pepe, Vucinic, Matri. Solo quattro nuovi giocatori, in fondo, rispetto alla scalcagnata squadra dell’anno scorso (ma almeno tre su quattro sono top player come si dice) e tuttavia la grande differenza l’ha fatta il tecnico, Antonio Conte. Vi confesso: all’inizio della stagione ero molto scettico su di lui. Rimpiangevo Didier Deschamps. E invece Conte ha dimostrato di essere un Deschamps senza spocchia, né complessi, ma un lottatore juventino da spogliatoio, con grandissime qualità tecniche. Un vero leader anche, non solo il “gladiatore” di mille battaglie ben raccontato da Discreti e Cagnazzo nella loro biografia. Qualcosa di più. Dovevo capirlo dal fatto che era stato per sei anni capitano. Come Furino, Scirea, Vialli, Del Piero… Roba tosta. Tutta gente di prim’ordine. E tuttavia non era ancora detto fosse il trascinatore di uomini mostrato in panchina.



Un leader infatti è tale se non ha il problema di esserlo, se naturalmente è la guida del gruppo, se dimostra di non essere mai in competizione con nessuno dei suoi, se non si fa del male da se stesso, solo per restare fedele alle proprie idee. 

Quando ho visto la prima partita, quella col Parma (4-4-2), finita 4 a 1; e poi soprattutto a Napoli (la prima volta del 3-5-2!), finita 3 a 3; ho capito che la Juve era tornata. Forte, convinta, sempre di più riconoscendosi in se stessa. Come in un film dell’orrore, le nostre maglie erano scolorite negli ultimi anni, non si vedeva più il bianconero. Ora nello specchio i colori tornavano ad esserci: il bianco e il nero. Netti, segnati, definiti. La Juventus è tornata e noi, i maledetti gobbi che mezza Italia odia e invidia, anzi odia perché invidia, siamo tornati a spaccare in due l’Italia com’ê nella nostra natura. Bianco e nero. O di qua o di là.



Il re dei commentatori calcistici, Mario Sconcerti, ha scritto sul Corriere della Sera un bellissimo articolo in cui cercava di spiegare a tutti che è un bene che la Juventus sia tornata. Un bene per tutto il calcio italiano. Un bene per il Paese. Grande pezzo. Epperò il più elegante tifoso bianconero che conosca, il professor Mario Veneziano, dice: purtroppo non è così. Nel senso che gli italiani non sanno apprezzare il ritorno della Juventus. Ed ha ragione. 

Noi gobbi lo sappiamo, i tifosi delle altre squadre ci odiano e ci invidiano, anzi ci odiano perché ci invidiano. È un meccanismo inevitabile, un destino centenario, iniziato col primo quinquennio della nostra storia, 1930-1935, proseguito negli anni Settanta, Ottanta, Novanta dello scorso secolo… 



Quale altra squadra ha, come la Juve, contro ma proprio contro tanti giudici, allenatori, cronisti sportivi, intere trasmissioni televisive, giornali specializzati dalla prima all’ultima pagina? Con il grande amico Lamberto Sposini, un altro juventino elegante (che nella sua luminosa carriera ha follemente pagato un ingiusto prezzo disciplinare all’Ordine dei Giornalisti per la sua consuetudine con Luciano Moggi) giocavamo spesso a questo gioco: chi dice di essere della Juventus a Mediaset, al Corriere della Sera, alla Rai, a Repubblica? Nessuno. Il Palazzo, quantomeno negli ultimi anni dopo la morte di Gianni Agnelli, è stato ferocemente anti juventino.

Noi gobbi, come i soldati scespiriani dell’Enrico V alla battaglia di Azincourt, sopravvissuti all’arroganza del potere di questi anni, siamo stati pochi, pochi e felici. Happy few, come dice il bardo inglese. Abbiamo ancora una volta vinto noi, noi pochi, noi pochi e felici, contro tutto e contro tutti. Perché questo trentesimo scudetto conquistato sul campo, ventottesimo per la burocrazia dei Palazzi romani, è stato uno scudetto ottenuto in salita. Con gli arbitri, il calendario, la Federazione, le televisioni, i giornali, le mafie piccole e grandi cresciute in questi anni, che hanno provato ogni strada per farci perdere. A gufare, a sperare nella caduta, a infilare di notte gli spilloni nei polpacci del pupazzetto di Pirlo o di Chiellini. E invece in salita siamo arrivati fino alla fine e persino imbattuti. Un record pazzesco, un risultato da primato vero, che chissà per quanto rimarrà non superato.

Su quella panchina torinese di Corso Re Umberto, dove si incontravano gli studenti tosti del vicino Liceo Classico Massimo D’Azeglio, è nata all’inizio del secolo scorso un’avventura che continua anche oggi in modo avvincente. Un sogno di amore. Juventus primo amore, diceva il titolo di una vecchia storia bianconera incisa su disco di vinile che da bambino sentivo e risentivo. È ancora bello e affascinante questo primo amore a strisce bianche e nere, è ancora vivo. È ancora per sempre.