“Ma ora le piogge piangono nella sua sala, senza una sola anima a udire quel pianto”. Chi non è avvezzo alla mastodontica saga storico-fantasy di George R.R. Martin non avrà forse colto la citazione. Pazienza: basterà in questa sede far notare e riferire che, nel momento più tragico ed emozionale del racconto, lo scrittore più lento della storia inserisce come colonna sonora ideale una canzone che evoca la pioggia. Un cliché, direte voi: già, forse. Ma andate a dirlo a chi visse quel 14 maggio del 2000 dalla parte sbagliata. La storia celebra solo chi vince: quelli che arrivano secondi vengono dimenticati. Antonio Conte lo sa bene, l’ha ripetuto a più riprese quest’anno. Lo sa, perché lui c’era, quel giorno maledetto: a Perugia, la Juventus si giocava lo scudetto. Aveva due punti di vantaggio sulla Lazio, ma erano nove solo cinque settimane prima. Era la Juventus di Ancelotti, la Juventus di Del Piero appena rientrato dal grave infortunio di Udine, la Juventus che tutti denigravano perché non giocava bene, perché stentava, perché Alex non segnava più se non su rigore, perché Ancelotti non andava a genio ai tifosi ancora innamorati di Lippi: ma intanto era lassù, ancora una volta. Peccato che però si fosse fatta mangiare tutto il vantaggio da una Lazio mai doma, che avesse perso un’incredibile partita a Verona, che arrivasse all’ultimo appuntamento non ancora campione d’Italia. Ma eravamo convinti, noi juventini, che quel gol di Kovacevic a San Siro contro l’Inter, andando a togliere il pallone dalle mani già protese del grande ex Peruzzi, fosse il gol scudetto. Come sarebbe potuto non esserlo? Contro un Perugia salvo e tranquillo, non c’erano dubbi, avremmo vinto. Lo avrebbe fatto anche la Lazio contro la Reggina, ma non sarebbe importato nulla. Una tale convinzione, che il sottoscritto, di ritorno da un weekend di studio dalle parti di Bergamo, si era già prenotato per la festa in piazza. Cosa poteva andare storto? E poi, mentre ci si diceva così, iniziò a piovere. Non dalle parti di Bergamo: lì c’era il sole, come normale che fosse a metà maggio. In Umbria invece, sopra il Renato Curi, quel Renato Curi che venticinque anni prima o giù di lì ci aveva tolto uno scudetto, si aprirono i cieli e venne giù un diluvio mai visto, che si intensificò, e non smise, non smise mai. Collina, l’arbitro di quel surrealismo buffo, prese l’unica decisione possibile, quella sbagliata:
Decise di giocare. Sapeva bene che era impossibile, ma che era altrettanto impossibile rimandare la partita. L’intervallo durò un’ora, il tempo limite: poi, tutti in campo. E segnò Calori. Un gol sporco, un destro a riprendere una ribattuta, un pallone che rimbalzò davanti a un immobile Van Der Sar. Dicevano che avesse problemi agli occhi, il buon Edwin: ma quel giorno, se anche avesse avuto dodici decimi, con quell’acqua la palla non l’avrebbe comunque vista. Finì così, anche se Davids al 90′ si mangiò un gol, anche se fino alla fine restai convinto che almeno allo spareggio ci saremmo arrivati, anche se in campo c’era la Juventus, e la Juventus che io conoscevo quelle partite non le perdeva. Invece no. La Lazio vinse 3-0, e dopo un’ora di attesa spasmodica in campo, negli spogliatoi e ovunque all’interno dell’Olimpico, esplose di gioia per aver vinto il tricolore. La Juventus prese una mazzata tremenda, da cui si sarebbe ristabilita solo due anni più tardi, guardacaso per merito della stessa Lazio. Solo che nessuno lo sapeva, che ci sarebbe stato il 5 maggio. Non lo sapeva l’Inter, non lo sapeva la Lazio, soprattutto non lo sapevamo noi. “Ma ora le piogge piangono nella sua sala, senza una sola anima a udire quel pianto”. Già. Ma noi, quel pianto dei nostri eroi, lo sentimmo eccome. Lo vedemmo, e ci unimmo a loro. Capito? C’è sempre di mezzo la pioggia.
(El Merendero)