Quando ho iniziato a seguire il calcio, la Juventus era appena entrata nel lungo tunnel della mediocrità. In panchina c’era Rino Marchesi, sulle maglie il tricolore conquistato la stagione precedente, in campo il Napoli di Maradona che cresceva fino a prendersi il titolo. Nelle bustine di figurine, che ci venivano distribuite davanti alla scuola, speravo di trovare Michel Platini, ma uscivano costantemente i due Luciano, Bodini e Favero. Allora, che la Juventus potesse vincere qualcosa, non mi passava per la mente: per me il campionato italiano era una questione tra Napoli e Milan, e i successi passati erano qualcosa di sfocato, sbiadito e mitologico, immagini da guardare in televisione o da vivere nei ricordi di mio padre. Quando andai a Torino, per la prima volta allo stadio, e vidi la Juventus battere il Como con un gol di Manfredonia, le Roi Michel era già un oggetto separato dalla Zebra e dal calcio giocato: non posso ricordarmi tutto, ma ho nitida l’immagine di una partita mediocre, forse addirittura irritante. Per farla breve, più gli anni passavano, e più il Milan diventava imbattibile, crebbe in me l’assoluta convinzione che non avrei mai visto la mia squadra festeggiare. Poi però arrivò un certo Del Piero, che aveva lo stesso numero di maglia di Platini, e quel ragazzino sconosciuto in un freddo pomeriggio invernale mise lì un gol da cineteca contro la Fiorentina, e qualche mese dopo lo scudetto l’avevamo vinto davvero. Ci qualificammo in Champions League, che per me era una creatura leggendaria, un qualcosa da guardare con occhi distaccati perché tanto c’erano sempre altre squadre. Per una volta, invece, c’era anche la Juve. Che, certo, aveva vinto un paio di UEFA e anche una Coppa Italia, ma restavano sempre vittorie minori, affermazioni da contentino, perché poi la Champions League era sempre e comunque qualcosa di più, che non riguardava noi. Ci riguardò quell’anno, eccome: arrivammo dritti in finale senza nemmeno soffrire, giusto un po’ con il Real Madrid nei quarti di finale. Il 22 maggio del 1996, una vita fa ormai, da buon quindicenne la finale contro l’Ajax me la guardai a casa. Niente gite in piazza, niente ammucchiate con gli amici, niente di niente: c’era scuola, il giorno dopo, non si transigeva. Ma fu…



… comunque straordinario, più o meno come quando Barney Panofsky, nel giorno del suo matrimonio, va dal barista a chiedere il risultato dei Montréal Canadiens, e poi la ragazza che diventerà sua moglie gli lascia un biglietto con scritto il risultato finale e le congratulazioni, perché gli Habs hanno vinto la Stanley Cup. Ecco, un momento di gioia simile, solo che io la partita la guardai, sul divano di casa in compagnia di mio padre, e impazzii al gol di Ravanelli, mi disperai al pareggio di Litmanen, soffrii le pene dell’inferno durante i supplementari (a 15 anni le emozioni sono più difficili da controllare, sapete, ma non credete a chi vi dice che con gli anni si diventa più freddi), poi arrivarono i rigori, e quando Jugovic andò sul dischetto e, con il fumogeno che tracciava il suo segnale proprio mentre prendeva la rincorsa, infilò Van Der Sar, realizzai improvvisamente che sì, anche la Juventus vinceva, non era qualcosa che non avrei mai potuto vivere. D’accordo, andai a letto subito dopo che Vialli ebbe alzato la Coppa, ma il giorno dopo mi presentai in classe con bandiera bianconera legata allo zaino e sciarpa al collo (quella gialla e blu, che ho ancora, e bene in vista). Eravamo campioni d’Europa, di lì a poco avremmo giocato altre due finali (perdendole, ma questa è un’altra storia) e sarebbe nata la grande Juventus. Perciò ecco l’insegnamento, se uno può esserci, giacchè questo sarebbe un articolo celebrativo: quello del tifoso è un duro mestiere, ma come tutti i lavori se fatto bene regala soddisfazioni. Non è forse vero che dopo la risalita dalla serie B molti avevano perso le speranze?



 

(El Merendero)

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