La sveglia suona: non è nemmeno l’alba, ma non c’è tempo di stirarsi nel letto e abituarsi all’orario. C’è un aereo da prendere, direzione Edimburgo e da lì Glasgow. E’ il giorno della partita: Celtic-Juventus. Nello stesso momento in cui, era fine dicembre, il sorteggio ha accoppiato le due squadre negli ottavi di finale di Champions League, abbiamo organizzato la trasferta: siamo in sei, tifosi bianconeri da sempre, ma il Celtic è Irlanda, è una tifoseria da ammirare, è orgoglio, tradizione, storia. Io, cresciuto nel mito dell’Erin gu brath, folgorato da una vacanza-studio a Dublino e dintorni, al Celtic Park non potevo mancare. Così si parte: ore 7, l’aereo decolla non prima di essere stato ripulito da ghiaccio e neve, perchè il maltempo ha colpito il Nord Italia proprio in quei giorni. Senza scossoni si arriva a Edimburgo: noleggiamo una macchina (qui si guida a sinistra: alla prima rotatoria il senso di nausea sale immediato, per fortuna mi abituo in fretta), e alle 15 siamo già davanti al Celtic Park: la storia si respira già dalla facciata principale dell’impianto, dove campeggiano due statue. Quella di Fratello Walfrid, fondatore del club che esalta la tradizione cattolica biancoverde, e quella di Jock Stein, il mitico allenatore che ha conquistato la Coppa dei Campioni (non per niente la gradinata Est, come scopriamo, è dedicata ai Leoni di Lisbona, i ragazzi del 1967 che hanno battuto l’Inter: un motivo in più per ammirare questa squadra). E una frase: E’ presto: bisogna immergersi nel clima pre-partita. Glasgow, dobbiamo constatare, è bruttina: città industriale del Nord Europa, regala poche attrazioni ai turisti. Una di queste però è un pub a cinque piani (costruito su mezzanini, tipico di queste parti) che non solo ricorda una delle più famose scene di Trainspotting ma è l’occasione per una pinta di birra: non è Scozia senza un mezzo litro che prepari al meglio a quando entreremo al Celtic Park. C’è atmosfera di festa: per i tifosi del Celtic affrontare la Juventus è innanzitutto motivo di grande autostima e orgoglio, e ci mancherebbe. Qui si può improvvisare una cantata, rigorosamente l’inno bianconero, sfruttando il microfono di un artista di strada: si accodano in tanti, il popolo juventino si muove verso il fischio d’inizio. E’ ancora pomeriggio quando facciamo il nostro ingresso nel settore ospiti: lo stadio è ancora deserto, contiamo non più di trenta persone con noi, il resto sono gradinate vuote. Che però si riempiono in fretta: cala la sera, ci siamo quasi. Entra il telone ufficiale della Champions League, viene steso sul campo. Prendo la telecamera per registrare: alzo la testa, e vedo davanti a me, ai miei lati, tutto intorno, migliaia di sciarpe biancoverdi, tutte uguali, tese al cielo; e un solo coro che si leva, il You’ll never walk alone che si leva in aria come una voce unica, che non va mai fuori tempo, non cala di intensità, e si spegne su un lunghissimo applauso al quale, inevitabilmente, ci uniamo anche noi. Poi, si gioca. Ed è un tripudio di emozioni e gioia: segna Matri, raddoppia Marchisio. A questo punto al Celtic Park cantiamo solo noi: l’atmosfera è surreale. Vucinic chiude la partita, ma lo spettacolo vero deve ancora iniziare. L’arbitro fischia la fine: pensate che arrivino fischi dagli spalti, che gli scozzesi vengano contestati? Non avete capito: qui, tutto lo stadio tributa un lungo, lunghissimo applauso ai suoi eroi, e pazienza che abbiano perso, tutti sanno che hanno dato l’anima in campo. Ma non è finita: dal settore sopra il nostro i tifosi del Celtic ci lanciano sciarpe e magliette. Come trofei di guerra: riconoscono di essere stati sconfitti, e ci consegnano le armi con il rispetto di chi ha di fronte il più forte. Non possiamo rimanere indifferenti: uno di loro prende una sciarpa della Juventus, se la mette al collo con gesti solenni e poi con le braccia tese applaude nella nostra direzione. E’ come un segnale: esplode un boato di approvazione, dal nostro spicchio di stadio leviamo il coro “Celtic, Celtic”. Finisce così: il giorno dopo si rientra in Italia, ma lungo tutto il volo di ritorno, e chissà per quanto, porteremo negli occhi le immagini e ricordi di quella sera, 12 febbraio 2013. La sera in cui abbiamo capito che il tifo per una squadra di calcio è innanzitutto orgoglio, attaccamento ai colori e tradizione, non certo il voler discriminare a tutti i costi gli avversari. La sera in cui una squadra ha subito una batosta, ma ha festeggiato i suoi giocatori come se avessero vinto. Lunga vita al Celtic e ai suoi straordinari tifosi: forse hanno dipinto l’ostacolo Neil Lennon più insormontabile di quello che era, ma adesso abbiamo capito perchè Rod Stewart, vedendo i suoi battere il Barcellona, si è messo a piangere di gioia.
(Marco Cecalupo)
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