“Se un giorno dovessi essere l’allenatore dell’Inter, o del Milan, sarei il primo tifoso di quelle squadre”. Le parole di Antonio Conte nella conferenza stampa di oggi hanno scosso tutto l’ambiente juventino e in generale il mondo del calcio italiano. Perchè la frase arriva alla vigilia di Inter-Juventus, e perchè i nerazzurri sono, per i fedelissimi dei campioni d’Italia, il nemico storico che è diventato ancor più inviso dopo i fatti legati a Calciopoli di cui non vale la pena riferire (perchè li conosciamo tutti). Parole forti quelle del salentino, che naturalmente hanno aperto al diverbio: com’è possibile che l’allenatore della Juventus parli di Inter come di una sua possibile destinazione e che, soprattutto, ammetta di poterne diventare tifoso? Lui che, nell’immaginario collettivo, più di ogni altro rappresenta l’orgoglio di essere bianconeri, dall’alto delle sue 13 stagioni in maglia bianconera? Inevitabile, è tornato alla mente un precedente storico: era il febbraio del 1999 quando Marcello Lippi, che con la Juventus aveva vinto tutto, perse in casa contro il Parma. “Se il problema sono io me ne vado”, tuonò il viareggino appena dopo quel 2-4. Detto fatto: arrivarono le dimissioni, la Juventus ingaggiò Carlo Ancelotti e Lippi si fermò. Fino a giugno: aveva già firmato con l’Inter, e la cosa era nota, tanto che il problema dei bianconeri era stato identificato nella mente ormai andata a San Siro e nei giocatori sfiduciati dalla prospettiva di perdere il loro allenatore. Comunque fosse, Lippi ripartì dall’Inter. Aveva a disposizione uno squadrone: Roberto Baggio, la coppia Vieri-Ronaldo (che però per problemi fisici giocò pochissimo insieme), e poi Blanc, Recoba, Seedorf. Arrivò quarto, centrando la Champions League, e Moratti lo confermò; ma la squadra subì sconfitte anche imbarazzanti (la più larga nella storia del club in casa, uno 0-4 contro la Fiorentina) e alla prima occasione buona, la sconfitta di Reggio Calabria all’esordio della stagione 2000/2001, segnò la fine del rapporto. A posteriori si disse di tutto: che Lippi avesse chiesto a Baggio di fargli da spia perchè pensava che qualcuno gli remasse contro nello spogliatoio (il Divin Codino si rifiutò, e tra i due il rapporto si incrinò definitivamente), ed ebbe dei diverbi con Panucci che più tardi preclusero le porte della Nazionale al difensore. Addirittura, ed è questo il punto, molti tifosi arrivarono a pensare alla cospirazione: la tesi era che Moggi avesse mandato Lippi all’Inter perchè rovinasse l’ambiente nerazzurro. Fantapolitica probabilmente, ma la voce ha attecchito fino a disegnare un caso: poteva essere possibile? Ovviamente no: probabilmente, a tradire il viareggino fu proprio il fatto di essere troppo legato alla sua Juventus, troppo tifoso, e quindi di non essersi calato al 100% in una realtà decisamente rivale. Lo sbaglio di Lippi fu quello: 



Non aver preso in considerazione il fatto che sarebbe potuto succedere. Non è un caso se nel 2001 tornò alla sua Juventus, e vinse immediatamente due scudetti (tra l’altro strappandone uno all’Inter) riportando la squadra in finale di Champions League. Ecco l’inghippo, che in questi giorni è attualissimo viste le celebrazioni per i vent’anni dall’esordio di Francesco Totti in serie A. L’ha ricordato Antonio Conte: “Io sono un professionista, e come tale mi comporto”. Siamo arrivati al cuore della questione: il professionismo. Che impedisce di essere tifosi di una squadra di calcio, e al massimo può permettere qualche simpatia, o echi di essa. Per questo Totti non ha mai lasciato la Roma: troppo tifoso per pensare di indossare un’altra maglia, pur se per lui si era concretamente parlato di Milan e Real Madrid. Purtroppo – o per fortuna – giocare a calcio ad alti livelli diventa un lavoro; e come tale va trattato. Ecco perchè siamo con Antonio Conte quando sostiene che un giorno, chissà, potrebbe anche sedersi sulla panchina dell’Inter: è tutto possibile e lo abbiamo già visto. Siamo della scuola che apre a ogni scenario, anche il più imprevedibile, piuttosto che di quella che fa dire “Non allenerò mai questa squadra” e poi ci finisce qualche mese dopo, o di chi sostiene che “con questo club nel cuore non potrò mai andare nell’altro” e tre giorni dopo firma il “tradimento”. E’ un business: ha ragione Cavani, pur se l’esternazione è sembrata fredda e cruda. Meglio non dare illusioni, anche perchè, recita un vecchio adagio, “i giocatori passano, la maglia resta”. Lo sanno anche i tifosi della Juventus: semplicemente, in un mondo nel quale gli eroi scarseggiano, ogni tanto è bello sognare che un allenatore possa esserlo per sempre. 



 

(Claudio Franceschini)

 

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