30 anni: per uno di noi, passaggio a livello tra i prati della giovinezza e i grattacieli dell’età adulta. Per un calciatore, già tempo di guardare indietro, ripulendo a dovere la colt per preparare l’ultimo valzer di cartucce. Per un campione? L’imbrunire in vista del tramonto? Con 10950 giorni d’esistenza zingara alle spalle, Zlatan Ibrahimovic si guarda allo specchio riscoprendosi sfibrato. Lo slavo di Malmoe, pollicino sull’autostrada della celebrità, in pausa all’autogrill delle nazionali, si sfila lo zaino delle pressioni in occasione dei trent’anni, festeggiati con la moglie Helena e i due marmocchi, Maximilian e Vincent. “Ormai faccio fatica anche a giocare con loro”, ha appena confidato al piombo ghiotto della Gazza.
Cosa succede a Ibracadabra? Niente, apparentemente: le prime apparizioni stagionali, pur intervallate da un fastidio all’adduttore, ci hanno regalato il solito pacchetto di dolciumi assortiti e piccantezze (la Caporetto di Torino non conta: nel calcio si può vincer da soli ma si perde sempre in undici). Ciò che ha stranito sono state le dichiarazioni rilasciate dalla tana di Stoccolma, dove l’11 rossonero sta accingendosi, tra echi d’italiche critiche e regali da scartare, alle decisive sfide della sua nazionale. Parole decise, secche come una sua bordata da fuori. ‘Età’, ‘invecchiare’, ‘routine’. Laddove fino a ieri cresceva verde l’erba del divertimento ora fanno capolino le prime sterpaglie di fatica. Nuvoloni nordici giunti ad oscurare l’uggiosa vallata di Milanello.
Il peso delle affermazioni non deve essere gonfiato: stiamo pur sempre parlando di un uomo, e forse è proprio questo a stupire. Un lampo d’umanità spossata nell’azzurro dell’abituale onnipotenza, il semidio della tv che impreca come un operaio di cantiere, che sbuffa come un bimbo stufo di fare i compiti. Ne ha avuti tanti Zlatan, ottemperati col genio dei predestinati: prestar fede ai giuramenti di promessa ventenne, abbattere i pregiudizi in quel di Torino, con uno Stivale intero pronto a scalciare al primo scivolone; laurearsi campione nella triennale interista; attraversare il guado e continuare a pescar successi con la maglia del Milan. Nel mezzo, palate di soldi per il “dottorato” ed una sola bocciatura, da un criptico professore di filosofia che favoriva i più tranquilli secchioni catalani. Tanta roba. Ajax, Juve, Inter, Milan (forse l’unico cui le tre parche del nostro calcio devono un segmento di destino), Barcellona: Ibra l’apolide è salito appena maggiorenne sul treno del successo rimanendo sino ad oggi in prima classe.
Non che siano mancati gli scossoni, sul vagone dei vip: accuse d’antisportività, d’immoralità, di mal di Champions, oltre alle progressive pressioni ed attese. Ma lui niente. Come un sommergibilista: gli rimbalza perché sa che vincerà. E difatti, Champions a parte, ha vinto sempre. Da protagonista. Di più: da leader, non con le parole, mai state il suo forte, ma coi fatti. Coi gol, gli assist, le magie, le pazzie, il taekwondo: Ibra è lo stendino cui il tifoso appende il proprio sogno, centrifugato e profumato d’aspettative. Per questo fa specie vederlo ripiegarsi su sé stesso, denunciando la stanchezza che non gli è mai stata concessa. Da anni Zlatan ci ha abituati all’eccellenza: ora, alle soglie dei trent’anni, emerge l’umanità di un artista di strada che dopo aver decorato i quartieri più chic d’Europa, vede dall’alto i propri murales che si seccano. Tranquilli, sembra dire lui in una delle sue smorfie beffarde: il tubetto del talento è ben lungi dall’esaurirsi. C’è da credergli. Quello che sembra scemare è l’entusiasmo che lo ha portato sin qui, ad un passo dalla divina perfezione, quella che non è di questo mondo. La gioia d’inseguire un pallone per gioco è sfociata nel torrente dell’abitudine che tutto travolge, mutandosi in obbligo circense (strapagato, per carità). La fame di Ibra è rimasta inglobata in quella di Raiola, la tata golosa che sul multiforme ingegno dello zingaro prodigio s’è costruito una vita.
“Oggi la mia vita quotidiana è diversa. Mi interessano anche altre cose”. Forse Zlatan ci sta dicendo proprio questo: il calcio, isola felice per ventinove anni, a trenta è diventato parte di un arcipelago più ampio. Del resto nella vita succede spesso: spendi tutto tè stesso per una cosa fino ad arrivare ad un punto in cui quella medesima non basta più a renderti felice. Conclusione forse affrettata, ma i sintomi sono chiari: dal mal di pancia dei tempi dell’Inter alle incomprensioni blaugrana, sino ai fastidi odierni.
C’è già chi ipotizza un ritiro precoce, al culmine della parabola. I predecessori in tal senso non mancano: l’ha fatto Platini, l’ha fatto Cantona. Per sua stessa amissione, ad oggi sembra un’ipotesi poco realistica. Ma nemmeno lontanissima: il declino non è cosa per lui. Nel frattempo, continuiamo ad applaudirne il talento, magari sperando in un no-look, perdonando l’ordinaria follia senza la quale, forse, non sarebbe dov’è. Buon compleanno Zlatan, trenta di questi anni.
C’è già chi ipotizza un ritiro precoce, al culmine della parabola. I predecessori in tal senso non mancano: l’ha fatto Platini, l’ha fatto Cantona. Per sua stessa amissione, ad oggi sembra un’ipotesi poco realistica. Ma nemmeno lontanissima: il declino non è cosa per lui. Nel frattempo, continuiamo ad applaudirne il talento, magari sperando in un no-look, perdonando l’ordinaria follia senza la quale, forse, non sarebbe dov’è. Buon compleanno Zlatan, trenta di questi anni.
(Carlo Necchi)