Due anni fa, nel gran premio di Malesia 2011, moriva Marco Simoncelli, pilota emergente che nella stagione precedente era sbarcato nella classe regina delle moto. Cosa resta del ragazzo, pilota e personaggio famoso (ma anche parente, amico, chi ne ha ne metta) che è stato Simoncelli? Un ricordo ancora fresco e simpatizzante, perché era difficile non parteggiare, in toni più o meno interessati, per colui che poteva diventare l’erede di Valentino Rossi, se non nei risultati sicuramente nell’affetto popolare. Parlare della persona Simoncelli è difficile, più giusto affidarsi ai pensieri di chi lo conosceva; all’italiano medio resta in mente un pilota talentuoso, divertente e spericolato. La sua morte ha rilanciato una domanda che spesso si cerca di accantonare, per l’enormità che sottende: perché è successo? Non c’è scomparsa, “pubblica” come in questo caso o privata che non risollevi il quesito. La risposta resta un mistero e non esaurita dalla spiegazione materiale: è stato un incidente, un qualcosa che cade sopra ad un’altra, stando ai dizionari. Qualcosa di imprevisto: spiegazione che non lenisce la ferita nè accontenta la domanda. Inutile scervellarsi: un giorno forse episodi come la morte di Simoncelli avranno un perché. Emerge però, proprio dal decesso, un’aspetto vitale: la passione e la forza che ogni due settimane spingeva Simoncelli, e spinge i piloti di oggi, a rimettersi in gioco tra rischi e avversari. Spesso, sotto la spessa coltre di spettacolo che ammanta i gran premi, capita di pensare che i piloti vadano troppo veloci, e che si rischi troppo soprattutto in circostanze atmosferiche avverse. C’è del vero, ma fa comunque riflettere la soglia di rischio che gli atleti in questione accettano di porsi. Il film Rush ci ha da poco ricordato il pensiero di Niki Lauda, che di fronte alle gare più pericolose di Formula 1 dichiarava: “Accetto di correre contro il 20% di possibilità di morire, non un decimo di più“. Davvero incredibile soprattutto per gente come chi scrive, che cerca sempre di dirottare gli eventi entro guard rail di totale sicurezza, e spesso non si muove se intravede solo uno spiffero di rischio. Per assurdo, si potrebbe presumere che se c’era un posto dove Simoncelli avrebbe accettato di morire era in sella alla sua moto. Per quante cose invece io sarei disposto a rischiare la vita? Meglio non pensarci, monta la paura; ma ogni giorno e in particolare oggi Marco ci ricorda che forse, fatte le dovute proporzioni a vita e circostanze di ognuno di noi, può non essere un’idea malvagia. In grado di spingerci un pò più in là del tran-tran quotidiano che spesso, molto umanamente, ci facciamo bastare.
(Carlo Necchi)