Il cambio euro/dollaro si sta avvicinando a quota 1,05, sui minimi da oltre cinque anni. Il tutto mentre i rendimenti dei titoli di stato italiani, come di altri Paesi europei, stanno continuando a crescere.
La prossima riunione del Consiglio direttivo della Bce è in programma il 16 giugno, ma già ieri il vicepresidente Luis de Guindos, in audizione alla commissione Economica del Parlamento europeo, ha detto di ritenere che l’inflazione sia molto vicina al picco e che si comincerà a vedere un calo nella seconda metà dell’anno, anche se resterà alta e nell’ultimo trimestre, secondo le proiezioni dell’Eurotower, si manterrà sopra il 4%.
Abbiamo fatto il punto della situazione con Domenico Lombardi, economista ed ex consigliere del Fondo monetario internazionale, anche per capire quali implicazioni possano esserci per l’Italia.
Cominciamo dal deprezzamento dell’euro nei confronti del dollaro: negli ultimi giorni c’è stata un’accelerazione di un trend in corso da diversi mesi.
Sì. Il fenomeno riflette principalmente le aspettative di un rialzo dei tassi negli Stati Uniti che si sono solidificate negli ultimi giorni, laddove la Fed ha veicolato segnali ancora più intensi circa la consistenza e la tempistica assai ravvicinata con cui avverrà questa stretta. Senza dimenticare che probabilmente nel meeting del Fomc in programma il 4 maggio verrà annunciato il Quantitative tightening, ovvero una riduzione del bilancio della Fed tramite la vendita dei titoli acquistati durante la fase di Qe. In questo contesto di fondo, si sono recentemente innestati altri importanti fattori che spiegano il deprezzamento dell’euro rispetto al dollaro.
Quali?
In primo luogo, la crisi energetica in atto, con il rialzo dei prezzi delle materie prime denominate in dollari, sta determinando una maggiore domanda di valuta statunitense. Inoltre, l’aumento dell’incertezza sulle prospettive economiche mondiali, a causa della crisi geopolitica, sta spingendo gli investitori a trasferire i propri fondi negli Stati Uniti, soprattutto perché l’Europa viene vista come un’area particolarmente a rischio: se non ci sarà una recessione quest’anno, si assisterà comunque a un significativo deterioramento nelle prospettive di crescita.
Questo deprezzamento dell’euro quali implicazioni può avere? Può contribuire ad alimentare l’inflazione e portare la Bce a prendere qualche misura particolare?
La dinamica del tasso di cambio non ha un impatto diretto sulla stance della Bce, ma indiretto, nel senso che contribuisce all’inflazione, anche se si tratta di un impatto contenuto: secondo analisi econometriche compiute dalla stessa Bce, infatti, il deprezzamento dell’euro ha un impatto marginale sull’indice dei prezzi al consumo. Nel quadro di insieme viene, però, alimentata la narrativa di un’inflazione che rischia di sfuggire di mano, rafforzando la posizione di coloro che richiedono un inasprimento della politica monetaria. Già ora che l’inflazione si mantiene su livelli alti, dalla Bce, come abbiamo visto la scorsa settimana, vengono veicolati segnali relativi a un imminente rialzo dei tassi, probabilmente già a partire da luglio. Tutto questo sembra far cadere del tutto la speranza di un atterraggio soft circa la fine del programma non convenzionale di acquisti di titoli di stato.
Con conseguenze non certo positive per l’Italia.
La fine del programma di acquisti App era stata già annunciata. Più che altro per il nostro Paese sarà importante capire se i segnali di debolezza del tasso di cambio spingeranno o meno il Consiglio direttivo a rivedere la guidance sulle prospettive del reinvestimento del principal dei titoli finora acquistati dalla Bce.
E le dichiarazioni di de Guindos, secondo cui resterà alta quest’anno non aiutano in questo quadro.
Esatto, peraltro nell’occasione del prossimo meeting del Consiglio direttivo a giugno verranno diffusi i nuovi dati previsionali, tra cui risulterà fondamentale quello relativo all’inflazione di medio periodo, perché ci aiuterà a capire se la postura di politica monetaria della Bce è destinata a cambiare. Nell’ultima batteria previsionale di marzo, l’inflazione di medio periodo era prevista all’1,8%, al di sotto del target del 2%. Nelle prossime settimane bisognerà cogliere i segnali verbali da parte degli esponenti della Bce per capire se ci dobbiamo aspettare una revisione all’insù di questo dato.
Fino ad allora ci aspetta quindi un mese e mezzo turbolento?
Sì, perché la componente geopolitica che alimenta l’incertezza oggi probabilmente è destinata a rafforzarsi, a meno di una tregua imminente in Ucraina che non sembra tuttavia essere in vista secondo gli analisti militari. La Fed, per quanto si muova in un’economia con caratteristiche strutturali diverse da quelle dell’Europa, in qualche modo condiziona la narrativa e fornisce soprattutto un supporto a quanti nel Consiglio direttivo della Bce vorrebbero un inasprimento ulteriore della politica monetaria europea.
Per il nostro Paese tutto questo cosa può significare?
Il nostro Paese, più di altri europei, registra un continuo affievolimento delle prospettive di crescita. All’interno di questo quadro, il fatto che la Bce non alimenti più la domanda di titoli di stato sul mercato secondario si combina con una crescente incertezza politica, creando le premesse per un possibile allargamento dello spread. Occorre tra l’altro considerare che sul mercato europeo crescerà l’offerta di titoli di stato, visto che i Paesi dovranno finanziare una maggior spesa per la difesa e fronteggiare l’incertezza e il rallentamento dell’economia con una politica fiscale più aggressiva. Nel frattempo, diminuirà la domanda di titoli di stato, dal momento che il programma non convenzionale della Bce sarà cessato. Il risultato potrebbe essere, pertanto, un ulteriore aumento dello spread.
La svalutazione dell’euro e l’aumento dei rendimenti dei titoli di stato non impattano direttamente sulle scelte della Bce, ma possono influire sulle posizioni dei membri del Consiglio direttivo?
Credo che l’interazione tra il deprezzamento dell’euro, un allargamento degli spread e il rallentamento della crescita in Europa possa aumentare il nervosismo nelle discussioni del Consiglio direttivo. Se la crisi energetica dovesse aggravarsi, e quindi i prezzi aumentare ulteriormente, questo darebbe vigore alle posizioni più dure, più nette nel richiedere un ulteriore inasprimento della politica monetaria, oltre quello ragionevolmente richiesto per mantenere, nel medio periodo, la stabilità delle aspettative di inflazione attorno al target del 2%. Non dobbiamo, poi, trascurare un fatto importante.
Quale?
Che la pandemia ha rappresentato uno shock simmetrico che due anni fa ha fornito alla Lagarde lo spazio politico per mettere in campo delle misure straordinariamente espansive. Poiché la crisi energetica oggi in atto colpisce i Paesi in modo differenziato, la Bce difficilmente potrà attuare delle politiche analoghe di cui l’Italia ha sino a oggi beneficiato, per quanto riguarda le condizioni di rifinanziamento dei suoi titoli di Stato.
(Lorenzo Torrisi)
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