L’ulteriore diminuzione degli occupati nel corso del mese di giugno 2020 – 46 mila rispetto a maggio – era ampiamente attesa. Significativa la concentrazione del dato negativo nella componente femminile (-90 mila) e per i rapporti di lavoro permanente. La rimessa in moto delle attività produttive ha consentito una parziale ripresa delle assunzioni a termine e delle partite Iva, e un aumento dei disoccupati che cercano lavoro, con una parallela diminuzione di quelli inattivi. Disastroso il raffronto con il mese di giugno dello scorso anno, – 752 mila occupati, tra i quali 613 mila lavoratori dipendenti, e una crescita vertiginosa (899 mila) delle persone inattive in età di lavoro. Un’evoluzione per i due terzi concentrata nel secondo trimestre dell’anno in corso.



Come evidenzia l’Istat, questi dati vanno presi con beneficio d’inventario perché risentono degli effetti delle misure di lockdown che hanno determinato una sostanziale paralisi del mercato del lavoro. Ma questo non deve trarre in inganno in relazione al fatto che queste misure hanno previsto anche il blocco dei licenziamenti e un massiccio ricorso alle casse integrazioni che, formalmente, consentono di registrare la continuità dei rapporti di lavoro. Il dato negativo infatti è essenzialmente riconducibile alle mancate assunzioni di nuovi lavoratori, in particolare con rapporti a termine e stagionali, e alla mancata apertura di nuove partite Iva per i lavoratori autonomi. Significa, in buona sostanza, che dobbiamo considerare i dati occupazionali negativi come una sorta di trend consolidato e destinato ad aumentare in relazione a quello che sarà l’assestamento delle imprese alle nuove condizioni di mercato. Un trend negativo già superiore alle previsioni effettuate dal Governo con l’approvazione del Documento di economia e finanza (Def) per l’intero anno in corso.



Nell’ambito del Governo, i lavori in corso per gestire la complicata problematica occupazionale vertono sull’adozione di alcuni provvedimenti transitori, finalizzati a offrire alcune risposte alle emergenze per l’anno in corso, che dovrebbero costituire l’oggetto principale del decreto da approvare nel mese di agosto, e su alcune ipotesi di riforma degli ammortizzatori sociali e delle politiche attive.

Sul primo versante sembra ormai probabile un’ulteriore programmazione di 18 settimane di cassa integrazione con la causale Covid per tutte le aziende in difficoltà, e del blocco dei licenziamenti sino alla fine dell’anno in corso , con la sola eccezione delle aziende che chiudono l’attività. Questi provvedimenti dovrebbero essere accompagnati da una serie di misure di carattere selettivo volte a disincentivare l’utilizzo delle Cig, prevedendo un contributo a carico delle imprese per una parte delle stesse che non abbiano subito una significativa perdita del fatturato, e con l’erogazione di sgravi contributivi sugli occupati in attività per le aziende che decidono di non utilizzare le Cig.



In parallelo dovrebbero essere sgravate dai contributi previdenziali, per un tempo delimitato, tutte le nuove assunzioni a tempo indeterminato, a prescindere dall’età e dalla condizione occupazionale dei nuovi assunti. Un tema aperto, e che registra ampi dissensi interni alla coalizione di governo tra il M5s e il Pd, riguarda l’eventuale proroga della sospensione dell’obbligo di esplicitare le causali per le nuove assunzioni con contratti a termine attualmente prevista per i contratti attivati, o rinnovati durante il periodo dei provvedimenti che hanno disposto il parziale blocco delle attività produttive.

Come dicevamo, sullo sfondo viene palesata l’intenzione di mettere mano a una riforma strutturale degli ammortizzatori rivolta a rimediare la frammentazione delle modalità di accesso ai sostegni al reddito sulla base delle tipologie aziendali, settoriali e di rapporto di lavoro, con l’intenzione di renderne più semplice e universale per tutti i lavoratori il loro utilizzo e di combinarli in modo rigoroso con le misure di politica attiva del lavoro.

La scelta di incrementare le tipologie di intervento per i sostegni al reddito per gestire l’emergenza e di ipotizzare nel contempo riforme strutturali, riproduce quanto avvenuto durante la precedente crisi economica. La riforma in essere degli ammortizzatori sociali, fortemente voluta dal Pd nel 2014, ha cercato di offrire una risposta alle proroghe indiscriminate delle casse integrazioni, introducendo una nuova indennità di disoccupazione (Naspi) con l’utilizzo di criteri di erogazione oggettivi per importi delimitati nel tempo. Una riforma che già prevede la condizione per i beneficiari di partecipare ai programmi di politica attiva, di accettare le nuove proposte di lavoro pena e la decadenza dai sussidi nei casi di rifiuto da parte dei beneficiari.

Questa riforma, rimasta sostanzialmente inattuata per la parte delle politiche attive, dirottate nel frattempo verso i beneficiari del reddito di cittadinanza, è stata progressivamente smantellata per la parte delle politiche passive nel corso degli anni successivi. Per effetto della reintroduzione delle deroghe finalizzate a rispondere a singoli casi aziendali e, soprattutto, con il ripristino vecchio stile della miriade di provvedimenti ad hoc adottati nel corso dei mesi recenti per via dell’emergenza Covid.

Vietato illudersi: la domanda di questi provvedimenti nei prossimi mesi è destinata ad aumentare, per l’inevitabile proseguo delle crisi aziendali e settoriali e per l’andamento complessivo negativo del mercato del lavoro. Tutto questo viene amplificato dall’evidente carenza di una comune visione delle politiche del lavoro che si manifesta anche nella gestazione di provvedimenti emergenziali. Introdurre vincoli per i licenziamenti e per i contratti a termine e incentivare le nuove assunzioni a tempo indeterminato sono misure che si contraddicono. Con l’unico effetto di diminuire ulteriormente la probabilità di trovare un lavoro per le persone che lo cercano.

Quello che impressiona è la carenza di analisi delle dinamiche reali del nostro mercato del lavoro, uscito indebolito dalla crisi economica precedente, e che si ritiene di correggere a colpi di decreti e di provvedimenti ideologici anacronistici. L’uscita dalla crisi richiederà l’adeguamento delle organizzazioni produttive, la riconversione di milioni di posti di lavoro e l’esigenza di aiutare la crescita di nuove imprese e nuove opportunità di lavoro. La ragionevole esigenza di garantire i sostegni al reddito per i lavoratori coinvolti non può essere fraintesa con la scelta di sussidiare posti di lavoro inesistenti. Le risorse devono essere mobilitate per accrescere l’occupabilità dei lavoratori e le probabilità di accesso al mercato del lavoro per coloro che ne sono esclusi.