Siamo ancora nel cuore della pandemia. Le vaccinazioni iniziano a far registrare i loro benefici effetti, ma la sostanza dello choc esterno, esogeno, che ha colpito simultaneamente domanda e offerta insieme alla riproduzione della vita umana, continua a essere operante. Il sistema capitalistico ha reagito in una forma storicamente sorprendente rispetto alle pandemie di cui abbiamo avuto notizia. Non so nulla di medicina e tanto meno di epidemiologia, ma cerco egualmente di comprendere che oggi la tecnologia e la ricerca medica di cui si potrebbe disporre, danno potenzialmente all’umanità un possibilità di risposta alle crisi pandemiche prima inusitato.
Se la salute e la sua cura, infatti, fossero un bene pubblico e la medicina territoriale e preventiva fossero erette a nostra difesa e se, seguendo la tradizione ebraica, non ci si arricchisse sulla cura e la salute, non si sarebbero contate le centinaia di migliaia di morti e di vite spezzate e la lotta alla contaminazione sarebbe stata assai più efficace di quanto non sia possibile in un regime di proprietà privata.
Ma anche nell’attuale contesto proprietario occorre comprendere che, nonostante i rapporti di produzione fondati sulla disuguaglianza, il cammino della società e della persona è ancora possibile nella speranza. I dati statistici lo confermano indubitabilmente. Per questo, dobbiamo comprendere che, se si esclude la caduta verticale del Pil mondiale, europeo e italiano avvenuto nel 2020 nel cuore della catastrofe pandemica, ora ci si attesterà sui tassi di riproduzione storica dei diversi capitalismi nazionali.
Anche la zona euro del vecchio continente seguirà questa linea. E questo perché il cuore della crescita europea è ancora quella consegnataci da secoli di storia. Oggi si chiamano aree front runner. Un tempo costituivano il cuore (vi ricordate Mediolanum?) dell’impero di Carlo V: erano le terre che andavano dalla Catalogna alla pianura padana sino a Venezia, passando per la Francia del Sud-Ovest, ossia l’Aquitania e la Burgundia, salendo poi sino ai Paesi Bassi e alle città dell’Ansa, per scendere infine per la Svizzera sino alla Baviera e alla Boemia, per raggiungere di nuovo l’Adriatico, sino a quello che sarebbe divenuto con Maria Teresa il Porto Franco di Trieste. Lì siamo rimasti. La convergenza non c’è stata se non per quelle terre che chiamano catching up e sono i Balcani e la Polonia “tedesca”. A riprova che le vicende della moneta unica contano nel breve e non nel lungo periodo. E che l’Italia rischia di entrare in un percorso di stagnazione profondissimo.
Ieri sono state pubblicate le stime del Pil tanto dall’Istat quanto da Eurostat e da esse emerge che l’Italia rimane la vera anomalia europea: non cresce, non cresce da trent’anni. Perché? Le risposte sono molteplici: in primis perché ha aree economico-sociali che non crescono più, come il Sud (con la parentesi di crescita che è durata dopo la seconda guerra mondiale sino alla prima metà degli anni settanta del Novecento) o che hanno smesso più recentemente di crescere, come il lembo di terra tra Adriatico e Tirreno, là dov’erano gli stati pontifici e i Lorena.
E così accade per la stratificazione sociale. Non solo l’ascensore sociale si è fermato, ma si è trasformato in un montacarichi che scende soltanto per quelle classi e quei ceti a medio reddito e istruzione secondaria e terziaria non funzionale al bisogno dell’apparato produttivo. Essi non trovano lavoro ed emigrano non più da Sud a Nord, ma fuggono dalla nazione: vanno all’estero. Con le conseguenze che sappiamo, quando l’emigrazione interessa le fasce di una gioventù che è ben preparata e proprio per questo troppo spesso è anch’essa “disfunzionale” al sistema produttivo.
I percettori di rendite ricardiane (manager “stockopzionisti” e loro famiglie, dirigenti pubblici di alto rango, benestanti come quelli ben descritti da Thorstein Veblen quando studiava le classi agiate nordamericane), sono estranei alla stratificazione sociale non solo per redditi e per significatività statistica (poche percentuali sul complesso degli umani stabili), ma anche perché si disinteressano delle classi povere per redditi e per status.
È in questo contesto sociale che l’Istat rende noti i dati sul Pil. Che è diminuito dello 0,4% nel primo trimestre del 2021 rispetto al trimestre precedente e dell’1,4% in termini tendenziali. Un dato che induce molto osservatori a prevedere per il secondo trimestre un nuovo, anche se lieve, segno positivo del Pil, dopo la lieve contrazione testé registratasi. Lo scenario prevalente è quello di un forte rimbalzo che si avrà nel terzo trimestre per via delle vaccinazioni. Ma le delusioni sono dietro l’angolo, se non si comprende che le chiusure devono essere effettuate laddove la contaminazione non può essere arrestata. Se i sistemi economici mondiali reggono – nonostante tutto – alla pandemia (gli alimenti continuano a essere distribuiti, gli ospedali a funzionare e i sistemi delle reti energetiche a reagire alle necessità crescenti e alle punte di discontinuità indotte dall’accelerazione dell’online e quindi del consumo di energia che così giunge alle stelle), ebbene, tutto ciò è il frutto della resistenza o della resilienza – come oggi barbaricamente si dice – dell’industria manifatturiera e dei servizi alle imprese che consentono la circolazione del capitale sociale e quindi il profitto e i salari e le attività della riproduzione sociale, in cui si comprendono le agenzie di formazione culturale e umana, dalle scuole alle famiglie.
Restano però rischi. L‘Eurostat ha comunicato il dato del Pil europeo relativo al 1° trimestre del 2021, che ha registrato una contrazione dello 0,6% rispetto al trimestre precedente, mentre l’Istat fa registrare la nuova contrazione del primo trimestre 2021, “di entità più contenuta” rispetto a quella registrata nel quarto trimestre del 2020: “risente – si dice – in particolare per il settore terziario, degli effetti economici delle misure adottate a contrasto dell’emergenza sanitaria”. La variazione acquisita del Pil per il 2021 è così pari a +1,9%. Se nel 2020 l’area dell’euro è stata colpita da un grave shock di natura eccezionale, già nella prima metà dello stesso anno l’attività economica si è certo contratta bruscamente a seguito delle misure di confinamento e della più elevata avversione al rischio, ma vi è indubbiamente stata una reazione della politica monetaria e delle politiche di bilancio, insieme alle notizie positive sui vaccini, e ciò ha contribuito a stabilizzare l’attività nella seconda metà dell’anno. Nel 2020 il Pil dell’area dell’euro è diminuito complessivamente del 6,6%.
La deflazione secolare ha continuato il suo corso: il livello dei prezzi europei è sceso ancora dello 0,3%, dall’1,2% del 2019, soprattutto a causa del calo dei prezzi dell’energia, ma anche per via dei fattori connessi alla pandemia. I settori più colpiti dalla crisi, tra cui trasporti e attività ricettive, ad esempio, hanno concorso a questa flessione già nella seconda metà dell’anno.
Il Pnrr è la politica economica che è emersa dal sistema di pesi e di rilevanze, di compensazioni e di dominanze esistenti tra le nazioni che hanno sottoscritto i Trattati europei.
Essi, nella storia secolare europea, sono una novità indubbia, che si caratterizza, più che per un orizzonte di certezze, per una serie di divergenze sia nei sistemi di potere, sia nei meccanismi della crescita europea. Questi ultimi sono, nonostante la eccezionalità della situazione, molto più radicati nella differenziata storia europea di quanto non si pensi: la pandemia ne sarà la prova e non il superamento.
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