L’ultimo rapporto dell’Istat sul commercio al dettaglio di maggio, pubblicato ieri, evidenzia un fenomeno interessante. Le vendite di beni alimentari in volume a maggio sono diminuite del 3,8% rispetto all’anno scorso mentre in valore sono salite del 7,7%. Nei primi cinque mesi dell’anno i volumi sono scesi del 4,7% rispetto al periodo corrispondente del 2022 mentre in valore sono aumentati del 7,3%. Significa che gli italiani comprano meno cibo di quanto non facessero dodici mesi fa. I prezzi degli alimentari a giugno erano ancora in salita dell’11% rispetto al 2022 con un’inflazione acquisita del 9,8% per il 2023. Questo si cumula con l’incremento (+8,8%) dei prezzi alimentari nel 2022. Sono dati coerenti con quanto osservato, per esempio, in Francia dove i volumi sono crollati a fronte di un rincaro dei prezzi.
Gli italiani mangiano di meno o sprecano di meno: in ogni caso quando vanno al supermercato comprano quantità di cibo inferiori al 2022. È un dato che dovrebbe preoccupare qualsiasi Governo perché l’aggregato nasconde famiglie che non hanno modificato in alcun modo i propri acquisti, tendenzialmente le fasce di reddito medie e alte, e altre invece che hanno dovuto fare scelte più drastiche. Finora, inoltre, visto l’andamento di quello che non è alimentare, gli italiani sembrano aver sacrificato gli alimentari a discapito del resto.
L’industria alimentare è energivora: dalla catena del freddo, passando per gli imballaggi e la trasformazione, fino alla logistica che fa arrivare l’alimentare sotto casa da centinaia o migliaia di chilometri di distanza. Questo spiega l’inflazione vista nel 2022 e negli ultimi mesi, perché i prezzi dell’elettricità e del gas sono tre volte quelli del 2021; prima delle sanzioni. Non è chiaro quanto siano ulteriormente comprimibili gli acquisti degli italiani e quanto siano disposti a fare compromessi sulla qualità. Non è chiaro nemmeno quali possano essere gli effetti sui beni non alimentari se arrivasse un rallentamento o una crisi economica vista la compressione già avvenuta sui beni meno discrezionali.
È più semplice invece chiedersi cosa possa succedere se i prezzi dell’energia dovessero di nuovo salire e se si interrompessero le catene che legano i Paesi consumatori a quelli produttori. Se i prezzi del gas e dell’elettricità tornassero a salire si scaricherebbero di nuovo sul settore alimentare e questo aprirebbe un problema economico e un altro sociale perché più si scende nelle fasce di reddito, più gli alimentari occupano una quota maggiore dei salari. L’energia, il gas e la benzina che alimentano l’inflazione alimentare sono gli stessi che fanno andare gli skilift, permettono i viaggi aerei e le gite fuori porta. In uno scenario di energia economica e abbondante non ci sono problemi, in uno di energia costosa e scarsa bisogna decidere a chi far decidere le allocazioni: se al mercato tramite i prezzi o se ai Governi tramite i limiti agli acquisti. Le ipotesi che abbiamo sentito negli ultimi giorni fanno propendere per la seconda ipotesi. I piani del Governo per “l’energia e il clima” che puntano alla settima corta lavorativa e allo smart working sono coerenti con una riduzione, per ora senza coercizione, di alcuni consumi. Gli obiettivi di riduzione del parco auto di Milano annunciati dal suo Sindaco due giorni fa, portando a esempio l’area B, con tutte le sue contraddizioni, sono un altro indizio. In questo secondo caso per chi ha le possibilità economiche per comprare un’automobile nuova non è cambiato niente, per gli altri molto.
Se la crisi energetica non viene risolta o se la sua “soluzione” assume un lungo periodo di scarsità prima che il paradiso green venga raggiunto si aprono problemi sociali, la fame, che l’Occidente dà per scontato da qualche decennio di aver risolto. Per far tornare l’equazione, con un risultato in cui nessuno fa la fame, il rischio è che i limiti ai consumi più discrezionali, ovviamente per il bene dell’ambiente, diventino qualcosa di più di una libera proposta.
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