I fatti e la storia. Il 6 luglio scorso il tribunale di Trapani ha riconosciuto a Emanuela il diritto di cambiare nome e identità di genere, registrando il cambiamento all’anagrafe senza dover subire nessun intervento chirurgico e senza dover affrontare nessuna terapia ormonale. In Italia è il primo caso di transgender non operato che ha potuto cambiare il nome al femminile.



Emanuela ha 53 anni, è originaria di Erice (Trapani) e ha trascorso gli ultimi 20 anni a cercare di ottenere anche a livello istituzionale il riconoscimento di una condizione che fin dai primi anni lei percepiva come contraddittoria, quella di un maschio che in realtà si sente donna, nonostante il suo corpo: nonostante i suoi organi sessuali tipicamente maschili, senza alcuna incertezza o ambiguità, dicano qualcosa di diverso. Emanuela si sente donna e trascorre molti anni della sua vita per ottenere questo riconoscimento.



La sentenza del 6 luglio, la prima nel suo genere in Italia, afferma che in linea di principio l’organo sessuale maschile non può essere di impedimento alla percezione di sé come donne. Il che pone non poche domande, anche perché la propria corporeità è parte integrante della propria personalità ed è un elemento che condiziona in modo significativo molte delle proprie relazioni con gli altri.

La Legge 164/1982 e le modifiche successive. Sono oltre 40 anni che in Italia c’è una legge, la 164 del 1982, che definisce l’iter necessario per il riconoscimento della condizione di persona transessuale, una vera e propria transizione, da un sesso all’altro. Si usa il termine transizione per indicare il percorso che deve affrontare una persona che si sente di non appartenere al genere biologico di appartenenza e inizia a vivere quella che percepisce come la sua vera identità di genere. Il processo di transizione fa riferimento agli interventi ormonali o chirurgici effettuati per adeguare il proprio corpo alla percezione che si ha di sé, ma anche al percorso burocratico e legale che porta al riconoscimento della nuova identità, con il cambio di nome e il rilascio di nuovi documenti. La legge 164 del 1982 riconosce alle persone transessuali la possibilità di ottenere la modifica del sesso ricevuto alla nascita e registrato all’anagrafe.



All’inizio la legge prevedeva che la modifica dell’attribuzione sessuale richiedesse prima l’autorizzazione all’intervento medico-chirurgico, dopo una fase psichiatrica e una endocrinologica e solo in un secondo momento, quella alla modifica dei documenti di identità. Era dunque necessario fare ricorso prima in Tribunale e quindi attendere l’emanazione di una sentenza per poter effettuare la transizione vera e propria e poi serviva una seconda sentenza per poter rettificare il sesso anagrafico. La legge 164/1982 è stata modificata con l’introduzione del DL 150/2011 che ne ha semplificato l’iter, ma ha riaffermato che il cambiamento anagrafico poteva avvenire solo dopo il trattamento medico-chirurgico.

Ulteriori modifiche alla legge 164/1982 sono venute con la sentenza della Corte di Cassazione, 15138/2015, che ha introdotto il diritto all’integrità psicofisica della persona transessuale, affermando che il trattamento chirurgico di demolizione degli organi sessuali non è indispensabile per rettificare l’attribuzione di sesso. Se l’interessato ha già assunto l’identità di genere nella quale si riconosce allora potrà fare richiesta di modifica dei propri dati anagrafici anche senza aver effettuato l’intervento chirurgico. La Corte Costituzionale ha successivamente ribadito questo concetto con la sentenza n. 221 del 2015: il giudice ha un ruolo centrale nel valutare l’opportunità di un intervento chirurgico, ma l’assenza di tale condizione non preclude la rettifica dei documenti di identità. Il 6 luglio 2023 quindi il tribunale di Trapani ha applicato queste norme e ha riconosciuto a Emanuela il diritto di cambiare nome e identità di genere, registrando il cambiamento all’anagrafe senza che dovesse subire nessun intervento chirurgico.

Qualche considerazione sul valore della Prudenza: tutelare i minori. Vale la pena sottolineare la prudenza del legislatore che ha sottratto decisioni così importanti per la vita personale dell’individuo e per il suo inserimento sociale a ogni possibile forma di improvvisazione, verificandone attentamente le motivazioni e la determinazione. Il riferimento all’integrità psicofisica della persona transessuale, previsto con la sentenza della Cassazione, mentre salvaguarda un suo diritto individuale, lascia aperto un altro quesito altrettanto fondamentale: il rapporto di ogni persona con il suo corpo, l’influenza che la percezione della propria immagine esercita su di sé e sugli altri. Neppure la legge può cancellare questo bisogno insopprimibile di far convergere ciò che sono con ciò che sento e di far percepire agli altri che ciò che mi sento prevale su ciò che sono. La propria soggettività può avere forza preponderante e modificare la percezione della propria corporeità, ma non può certamente cancellarne l’oggettività, con cui doversi confrontare ogni giorno, almeno nella propria intimità.

La dialettica soggettività-oggettività in questi casi conserva una sua intrinseca ambiguità che generalmente influisce sulla rete dei rapporti interpersonali, destando perplessità, dubbi, ansie, aspettative. Ed è questo l’aspetto più difficile da gestire non solo per il soggetto transgender, ma anche per tutti coloro che entrano in contatto con lui. È la vera sfida sociale, che la persona transgender deve affrontare giorno per giorno, mettendo in gioco il suo carattere e la sua personalità, la sua affidabilità e la sua professionalità.  Nel difficile equilibrio tra discrezione e trasparenza il soggetto transgender si gioca anche il suo ruolo sociale, per evitare strumentalizzazioni mediatiche e privilegiare la propria serenità e il proprio benessere.

La prudenza del legislatore, comprese quella complessità nelle procedure che può apparire come un’esasperante lentezza burocratica o una sorta di invasività sul piano medico e psicologico, sono pensate come forme di garanzia soprattutto davanti al rischio che certe decisioni si prendano in età evolutiva. Nel caso di Emanuela i suoi 53 anni, i venti anni spesi cercando di far riconoscere il suo status, sono una conferma delle sue motivazioni. Ma quando si parla di bambini o di adolescenti com’è recentemente accaduto in Inghilterra, con i drammatici fatti della Clinica Tavistock di Londra, allora la prudenza non è mai troppa. Vale la pena ricordare che per 24 anni lo psichiatra David Bell, già Presidente della British Psychoanalityc Society, è stato dirigente presso la Tavistock Clinic di Londra e nel 2018 ha compilato un rapporto in cui si riportavano le preoccupazioni di molti medici della clinica per il modo in cui il Gender Identity Development Service trattava i giovani pazienti, bambine e bambini affetti da disforia di genere. Quel rapporto gli è costato un’azione disciplinare a cui hanno fatto seguito le sue dimissioni. Nel report lo psichiatra parlava dei gravissimi danni procurati dalla Tavistock ai bambini, perché le terapie ormonali messe in atto erano una vera e propria violenza praticata su minori con disforia di genere. Bell attribuiva pesanti responsabilità a organizzazioni come Stonewall e Mermaids che utilizzavano i corpi di bambine e bambini per i loro scopi politici.

— — — —

Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.

SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI