«Incongruenza di genere nella salute sessuale», o per meglio dire “disforia di genere”: l’ente classificatore delle malattie la riconosce pienamente dal 2018 e oggi al centro del dibattito nazionale per la parte molto discussa sull’identità di genere presente all’interno del Ddl Zan in arrivo al Senato il prossimo 13 luglio. In un lungo reportage oggi su “La Stampa” Maria Teresa Martinengo affronta i 37 casi negli ultimi 3 anni avvenuti nella sola Torino di bimbi-minori in “crisi di identità” e classificati come colpiti dalla disforia di genere.



Non per forza la malattia porterà ad un cambio di sesso (transgender in tutte le possibili sfaccettature), anzi spesso una cura psicologica costante, con la vicinanza della famiglia, porta a “risolvere” la “crisi” nel corso della crescita adolescenziale. Il reportage de “La Stampa” tratta del primo caso nel 2005, il secondo nel 2007 e i 37 nel triennio 2019-2021, casi triplicati e che arrivano a 162 totali nella città di Torino negli ultimi 16 anni. Questi sono i casi di quelle famiglie che si sono rivolte alle strutture sanitarie e pedagogiche torinesi, coloro che possono «aiutarle nell’accompagnare i loro figli e figlie a comprenderei e a seguire il percorso che in una minoranza di casi, nella maggiore età, può portare al cambiamento di sesso».



LA DISFORIA DI GENERE E LA DEPRESSIONE

Per alcuni bambini i primi problemi arrivano già a 2-5 anni, come spiega Damiana Massara, psicologa e coordinatrice del gruppo di lavoro minorenni del Cidigem, oltre che coordinatrice della Commissione Minorenni dell’Osservatorio Nazionale sull’identità di genere: «la domanda di aiuto è diventata molto più frequente del passato». Dei 162 casi emersi a Torino, spiegano gli esperti, 100 sono “femmine alla nascita”, 62 invece i maschi: «il problema è sempre esistito», spiega ancora Massara, «ma ora viene affrontato e chiamato col suo nome». I ragazzini che non si sentono “nella norma” spesso si isolano, vanno in depressione e a scuola alcune volte sfociano in episodi di bullismo subito. «Le famiglie ci presentano il problema di un figlio che non si sente di appartenere al sesso assegnato (non si può più parlare di genere biologico, spiegano gli esperti di Torino, ndr) e chiedono una consulenza», spiega la neuropsichiatra infantile Chiara Baietto che coordina l’ambulatorio del Regina Margherita, «sono famiglie attente, non liquidano la cosa proibendo comportamenti, ma cercano di capire». Il lavoro con i bimbi è proprio quello di eliminare il più possibile la paura, prevenendo possibili future psicopatologie: viene provato, come logico che sia, che in un ambiente familiare il più possibile sereno e comprensivo si riduce drasticamente la possibilità di «autolesionismo, tendenze al suicidio e depressione». In realtà solo un terzo di loro, dopo il percorso di aiuto e sostegno, conferma la disforia di genere: all’inizio si sentono “solo” strani e non sanno inquadrare il problema, «la pubertà è il momento spartiacque», conclude la neuropsichiatra su “La Stampa”, «se dopo l’inizio l’adolescente si vive male si può intervenire con i farmaci bloccando, per dare ancora tempo al ragazzo o ragazza per considerare cosa è meglio per lui o lei». Il percorso non è facile ma il più possibile viene affrontato, in Italia, senza farmaci e accompagnando sempre di più il ragazzo e la famiglia.

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