La morte di Camilla Canepa, la diciottenne della provincia di Genova rimasta vittima delle complicazioni derivanti dall’inoculazione del vaccino AstraZeneca, è diventata un campo di battaglia tra vaccinisti e antivaccinisti, arrivando a lambire le divaricazioni politiche che attraversano la dialettica democratica a livello nazionale e regionale.
La morte, invece di indurre al silenzio e alla riflessione, si trasforma in un assist per le posizioni più disparate, quasi che non si aspettasse altro per ribadire pregiudizi o statistiche. Ci confermiamo un paese populista, dove non si accetta alcuna mediazione tra la realtà e il soggetto, che sia essa la politica, la magistratura o la comunità scientifica: siamo tutti convinti di avere gli elementi sufficienti per capire e per muoverci, addomesticando qualunque cosa accada alla visione ideologica della realtà che più ci conforta o ci convince. Non è dunque necessario fidarsi di niente o di nessuno, coltivando come unico criterio di giudizio il sospetto, la diffidenza o – peggio – un’ignorante ed esibita presunta superiorità o furbizia, morale o intellettuale che sia, che ci renderebbe sempre migliori e più astuti degli altri.
In realtà ciò che questo nostro paese sta coltivando è la splendida solitudine in cui il nostro totale disinteresse per le ragioni dell’altro ci lascia, incapaci di praticare “pausa” rispetto alla necessità di dover sempre dire qualcosa o “ascolta” rispetto al bisogno di placare con le nostre parole le legittime obiezioni che sovente ci vengono poste.
Camilla con tutto questo non c’entra: educata alla vita e alla generosità da una famiglia splendida, è finita in una vicenda dove a soccombere è stata anzitutto l’autorevolezza degli enti preposti a dare informazioni, spiegare, far capire le cose senza fretta o mistificazioni. E la famiglia di Camilla è ancora più lontana dalla gogna surreale che si è abbattuta sulla vicenda della morte della figlia: senza nulla criminalizzare, i genitori hanno deciso di donare gli organi della ragazza affinché altri potessero vivere e Camilla potesse portare a compimento quella passione per il prossimo che la animava fin da ragazzina in tutti i contesti in cui viveva, dai campi parrocchiali a quelli della pallavolo, dalla scuola alle amicizie di tutti i giorni.
Si delineano così due mondi: quello attrezzato dai media e dai “narratori seriali”, e quello reale, in cui si respira tutto il mistero di una vicenda che merita tempo e saggezza per essere compresa. Eppure è chiaro che scegliere uno di questi due mondi non dipende dal grado di istruzione ricevuta o da qualche dote particolare, ma solo da quanto si sia disposti a rischiare sul silenzio, sull’attesa, su una vita che non tradisce ma che dialoga con le domande del cuore. Presto tanti “addolorati di oggi” si dimenticheranno di Camilla e della sua storia, mentre invece è solo la memoria che aiuta a capire sul serio il senso e la direzione di un evento.
Bloccati nel presente e nell’effimero, privi di un passato e impossibilitati a sognare un futuro, siamo fermi a litigare sull’eterno “ora” della vita. Impegnati a consumare e a tradire il tempo che ci è stato dato invece che a guardarlo con quella curiosità di chi sa che, anche nell’ora più buia, tutto è indizio e traccia di un senso e di un significato che merita il nostro tempo. E che, come Camilla, cerca il nostro cuore.
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