Come diceva il Grande Timoniere cinese, grande è la confusione sotto il cielo di Abruzzo, la situazione è eccellente. Gli incompatibili oppositori della Meloni si apprestano a dar vita ad un esperimento del tutto nuovo, ovvero la mescolanza di ex nemici che si sono dati gomitate e che ora si trovano assieme a sostenere D’Amico come candidato unitario delle opposizioni.
Non è un caso che accada da quelle parti. La tradizionale visione pragmatica delle terre di provincia sta dando concretezza ad un assunto che i politologi romanocentrici fanno fatica ad accettare. Ovvero che prima serve vincere, poi si discute delle differenze. Perché, si sa, di sciocchezze le opposizioni ne hanno fatte parecchie. In Lombardia hanno regalato la vittoria a Fontana, per dirne una, dividendosi in modo scellerato, e nessun sondaggio prevede che una delle opposizioni da sola possa vincere.
Perciò i tenaci politici di opposizione abruzzesi, a cui apparteneva il mitico Franco Marini del Ppi, uomo vero di centro ma anche grande federatore dei moderati con la sinistra, non vogliono perdere l’occasione di fare una vera rivoluzione provando, casomai, a vincere. La cosa è in sé sconvolgente, addio proclami. La Boschi alleata dei grillini, Renzi torna con Calenda, Elly Schlein manda al macero le idee rivoluzionarie e si aggrega con i suoi odiati riformisti.
Il tutto apparirebbe grottesco se non fosse che forse chi vive la politica dal basso si è un po’ ribellato ai progetti politicisti. Trovare un modo per stare assieme al governo di una regione è cosa complessa, ma regalare la vittoria alle destre sarebbe imperdonabile. L’esperimento parte da un assunto nazionale. Nessuno ha vinto niente da quando è partita la Grande Guerra del campo largo. Anzi, solo sconfitte scottanti e perdita di potere a livello locale. Perciò, constatato che Renzi e Forza Italia non si accasano per ora, che nessuno tra Elly e Giuseppi ha vinto la battaglia del populismo radicalista, le seconde linee locali hanno, praticamente, commissariato i leaders dal basso: “Fatevi le vostre guerre a Roma, qua proviamo a vincere”.
Il che riapre un tema. Se domani si rifacessero le primarie di coalizione, non è che verrebbe fuori un leader vero e popolare in grado di guidare l’opposizione ed il Paese? Non è che “la base” la sa più lunga dei dirigenti ed in questo marasma di distinguo, alla fine, non siano più artificiali le divisioni che la coalizione di tutti?
La domanda sarà feroce se la cosa funzionerà. Ma i presupposti paiono esserci. Fuori da questa aggregazione si palesa il grande Di Battista. Ormai Dibba non ne può più di stare fermo. E fonda un suo movimento anti-tutto. Anti-Occidente, anti-lavoro, anti-sistema. Pronto a recuperare la furia iconoclasta degli avvii. Lui, assieme a parte dei radicali di sinistra, alcuni dei quali addirittura accasati con Alemanno, porteranno alta la bandiera di chi è fuori dal sistema.
Ma chi ci sta dentro ha anche capito che non è stagione di furiose lotte radicali. Lo sciopero generale della Cgil ha fatto meno presenze del concerto di Ligabue a Campovolo, se non fosse per quadri sindacali e di partito in piazza non ci andrebbe nessuno. Anche perché ormai l’italiano è un elettore furbo. Vota chi conviene e chi mostra di saper gestire. Il tempo dei malpancisti appare una stagione lontana. Fallita la rivoluzione riformista renziana, quella populista di destra dei giallo-verdi, verificata la scarsa solidità politica dei governi tecnici, anche la rivoluzione sovranista appare morente. Nulla delle promesse è neppure lentamente in calendario. Anzi, Giorgia potrebbe prendere senza problemi la tessera della Dc dei dorotei.
Perciò o la proposta di governo delle opposizioni è solida, oppure inventarsi una nuova rivoluzione urlata e non attuata non interessa. Neppure agli iscritti alla Cgil. Da qui il ritorno alle basi, alle fondamenta. Da lì ripartì il centrosinistra dopo la disfatta del 2001. Facendo crescere la classe dirigente locale che poi divenne guida nazionale. Non che dall’Abruzzo possa arrivare un Prodi, ma un po’ di concretezza e di giudizio sì. Ne sarebbe contento Franco Marini che di tutte le parole spese per farsi la Grande Guerra tra oppositori ne avrebbe poche, fumando la sua pipa: “Confronto e dialogo. Sguardo al minimo comun denominatore piuttosto che al massimo comun divisore. È quanto mancato soprattutto in questo ultimo ventennio della vita repubblicana”. Era il 2013. Quanto ci manca gente come lui. Chissà che ripartire dalla sua terra non porti giudizio.
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