Il virus non è solo una questione medica ed epidemiologica. È un fattore di rimodulazione antropologica. E questo lo racconta bene, ancor prima che il cronista o il sociologo, la grande letteratura. A partire dal grande capolavoro di Albert Camus, “La peste”, attento a individuare la struttura originaria e il mutamento del carattere degli uomini dentro un’epidemia contemporanea.



Si sa, già la malattia di per sé introduce cambiamenti significativi nell’umanità del singolo. Ma quando ci si trova di fronte a un’epidemia, la questione assume caratteristiche affatto differenti. Fuori dalla solitudine connotata dalle esigenze inesorabili del destino, è nella moltitudine che i rivolgimenti dell’umano si ridefiniscono in un magmatico contagio. Così, nel prima, nel durante e nel dopo, le società si ritrovano contaminate e cicatrizzate in una nuova identità.



Orano, la cittadina algerina di cui la peste prende possesso, diviene così una sorta di laboratorio antropologico, in cui si possono osservare i mutamenti, le sfumature, i contorcimenti non solo delle carni, ma anche degli spiriti degli uomini.

La paura e la negazione

Da quel momento ebbe inizio la paura e, con essa, la riflessione

La paura si radica nell’incertezza. La paura è goffa, produce fantasmi, ma anche auto–giustificazioni. In una prima fase, quando ancora tutto è poco chiaro, la paura diviene innanzitutto un elemento di negazione. La paura, insomma, tenta di cancellare, di ridicolizzare, di ridimensionare, di incolpare. Perché in una società razionale si è sempre pronti a ritenere che la realtà sia governabile con azioni pertinenti. Così, semplicemente, chi deve fare faccia. “La cronaca locale, abitualmente molto varia, adesso è tutta dedicata a una campagna contro il comune. I nostri amministratori si rendono conto del pericolo costituito dai corpi putrefatti di questi roditori?.



Nella sua intrinseca contraddittorietà, la paura da una parte accusa e dall’altra nega: “Ma di sicuro non è contagiosa”; “E comunque, cosa le dice che sia contagiosa?. Eppoi l’epidemia è questione che riguarda i Paesi sottosviluppati. Quante volte l’abbiamo sentito al telegiornale mentre tranquilli consumavamo la nostra cena. 

È impossibile, lo sanno tutti che in Occidente è scomparsa”; “Sono anni che è scomparsa dai paesi temperatiInsomma, “benché un flagello sia infatti un accadimento frequente, tutti stentiamo a credere ai flagelli quando ci piombano addosso. Nel mondo ci sono state tante epidemie di peste quanto guerre. Quando scoppia una guerra tutti dicono ‘È una follia, non durerà’. E forse una guerra è davvero una follia, ma ciò non le impedisce di durare. La follia è ostinata, chiunque se ne accorgerebbe se non fossimo sempre presi da noi stessi. A questo riguardo i nostri concittadini erano come tutti gli altri, erano presi da se stessi, in altre parole erano umanisti: non credevano ai flagelli. Dal momento che il flagello non è a misura dell’uomo, pensiamo che sia irreale, soltanto un brutto sogno che passerà. Invece non sempre il flagello passa e, di brutto sogno in brutto sogno, sono gli uomini a passare, e in primo luogo gli umanisti che non hanno preso alcuna precauzione. I nostri concittadini non erano più colpevoli di altri, dimenticavano soltanto di essere umili e pensavano che tutto per loro fosse ancora possibile, il che presumeva che i flagelli fossero impossibili. Continuavano a fare affari, programmavano viaggi e avevano opinioni. Come avrebbero potuto pensare alla peste che sopprime il futuro, gli spostamenti e le discussioni? Si credevano liberi e nessuno sarà mai libero finché ci saranno i flagelli”.

La statistica

I numeri sono la cosa più oggettiva. Almeno in apparenza. E quando inizia il conteggio delle vittime e degli infettati, ogni opinione perde l’autorizzazione a esistere. Ma soprattutto i numeri hanno una grande influenza sulla parola. La scuotono. E siccome i numeri tendenzialmente non mentono, anche la parola si trova spiazzata nella sua veste mistificatrice: “I numeri salgono, dottore – annunciò – undici morti in quarantotto ore”. “Insomma, forse bisogna decidersi a chiamare questa malattia con il suo nome – disse Rieux – Finora abbiamo temporeggiato”.

In quattro giorni (…) la febbre registrò quattro impennate clamorose: sedici morti, poi ventiquattro, ventotto e trentadue. Il quarto giorno fu annunciata l’apertura di un ospedale ausiliario in una scuola materna. Per strada i nostri concittadini, che fino a quel momento avevano continuato a mascherare la preoccupazione dietro le battute, sembravano più silenziosi e tristi.

Ma anche nelle statistiche si annida il dubbio: “In primo luogo – pensava l’opinione pubblica – forse non tutti erano morti di peste. E poi, in secondo luogo nessuno sapeva quante persone morissero alla settimana in tempi normali”.

Insomma, la questione stava tutta nella verità sacrosanta della media e “all’opinione pubblica mancavano i termini di paragone.

Porte chiuse

Sul dispaccio era scritto: Dichiarate lo stato di peste. Chiudete la città”. “Da questo momento si può dire che la peste ci riguardò tutti e “tutti si accorsero di essere sulla stessa barca e di doversene fare una ragioneDentro il recinto anche le speranze trovano un ostacolo invalicabile. Le porte chiuse trasformano una tranquilla cittadina in una gabbia da laboratorio e gli uomini in cavie. Ciascuno perde il proprio spazio di riferimento, a cominciare da quello proprio dell’immaginazione. In gabbia “qualunque compromesso era impossibile e (…) le parole ‘transigere’, ‘favore’, ‘eccezione’ non avevano più senso”.

Per la prima volta una società di relazione fa l’esperienza dell’esilio: “Veniva sempre il momento in cui ci si rendeva conto che i treni non arrivavano. Sapevamo allora che la nostra separazione era destinata a durare e che dovevamo imparare a scendere a patti col tempo. Da quel momento ritrovavamo insomma la nostra condizione di prigionieri, confinati nel passato, e se pure alcuni di noi avevano la tentazione di vivere nel futuro, ben presto vi rinunciavano, per quanto era loro possibile, provavano le ferite che l’immaginazione infligge a coloro che di essa si fidano.

Sulle prime lo spettacolo che si registra in una società rinchiusa, in cui gli scolari disertano le aule e i lavoratori le fabbriche, è quella “di una città in festa in cui fosse vietata la circolazione delle auto e fossero stati chiusi i negozi per consentire lo svolgimento di una manifestazione pubblica”, anche se “quella peste era la rovina del turismo”.

In queste condizioni la prima rimodulazione antropologica riguarda il fatto che “non c’erano più destini individuali, ma una storia comune costituita dalla peste e sentimenti condivisi da tutti”. E una storia comune impone il livellamento di ogni differenza, di ogni specificità. Non c’è più ricchezza o intelligenza, status sociale o privilegio, ma un superiore punto di vista. E “dal superiore punto di vista della peste, tutti erano condannati, dal direttore [della prigione] fino all’ultimo carcerato, e per la prima volta regnava forse nella prigione una giustizia assoluta.

La seconda mutazione ha invece a che fare con la qualità dei sentimenti: “Nessuno fra noi provava più grandi sentimenti. Ma tutti provavano sentimenti prevedibili” proprio perché, nel momento in cui accade, “non c’è niente di più monotono di un flagello e le grandi tragedie, per la loro stessa durata, sono monotone”.

In definitiva, anche i sentimenti alla fine si adattano: “Avevano ancora, certo, le sembianze della tragedia e della sofferenza, ma non ne sentivano il morso. In una città chiusa, insomma, si fa l’esperienza di un “lungo sonno e le sue strade sono popolate da sonnambuli.

Gli eroi del flagello

Il dottor Rieux è il protagonista e l’eroe principale del capolavoro di Camus. Medico illuminato e soprattutto uomo integro, incarna quella porzione d’umanità che nella tragedia diviene il punto di riferimento di tutto un mondo in rovina. Alla guida del servizio sanitario di Orano, a lui tocca farsi carico delle decisioni, delle osservazioni, delle cure dei disgraziati suoi concittadini. Ateo, realista assoluto e insieme ricco di un’umanità essenziale, incarna quella figura nascosta e scontata nei momenti felici della normale amministrazione della salute, che diviene angelica nei momenti in cui la malattia e la morte non si fanno imbrigliare dai laboratori, dai bisturi e dai farmaci. Umile nella sua consapevolezza professionale, Rieux sapeva “che per un periodo di cui non vedeva la fine il suo ruolo non era più quello di guarire. Il suo ruolo era diagnosticare. Scoprire, vedere, descrivere, registrare, e poi condannare, questo era il suo compito”. Perché “lui non era lì per dare la vita, era lì per ordinare l’isolamento”.

Ma Rieux non è il solo eroe della peste. Altri spiccano nella generale depressione per la loro particolare alterità rispetto all’epidemia. Si tratta di uomini che vivono una dimensione propria, ideale, indipendente dall’evoluzione della malattia, del rovesciamento esistenziale che sconvolge Orano.

Il cercatore di parole, ad esempio, impegnato da una vita a rintracciare la parola giusta per dire il suo amore; l’aspirante ad una santità senza Paradiso, il cronista della peste, colui che la inchioda nei suoi taccuini e descrivendola asetticamente la depotenzia. Morirà, ma la sua morte sarà eroica, vigile, consapevole. Il giornalista che vorrebbe fuggire per ricongiungersi con la sua propria felicità individuale, ma scopre che non si può essere felici da soli. Il giudice istruttore, che perde un figlioletto e si ammala egli stesso e chiede per sé il medesimo trattamento di quarantena imposto a tutti in uno stadio requisito. Quando ne uscirà chiederà di tornare tra i suoi compagni per alleviare i loro patimenti. E anch’egli perderà la vita. Il gesuita che ritrova il mistero di Dio e del suo amore paradossale, superando ogni tentazione ideologica. Perché di fronte al male ciascuno è disarmato. “Con le spalle al muro, fedele allo strazio di cui la croce era il simbolo”: questa è la posizione scomoda ma giusta per contemplare l’amore difficile di Dio.

Insomma, c’è qualcosa che si impara durante i flagelli, “che ci sono negli uomini più cose da ammirare che cose da disprezzare”. È il bilancio di quel lungo viaggio dentro l’epidemia, un bilancio possibile solo a storia finita, visibile con occhio e mente lucidi.

È finita la peste a Orano. E ciascuno dei sopravvissuti s’è sentito un eroe, un testimone, pronto a condurre i turisti delle disgrazie a visitare i luoghi simbolo del male.

È finita la peste come finirà il nostro proprio virus. Restava in Camus la consapevolezza che la peste, come forse il nostro virus, “non muore né scompare mai, che può restare per decenni addormentato nei mobili e nella biancheria, che aspetta pazientemente nelle camere da letto, nelle cantine, nelle valigie, nei fazzoletti e nelle carte, e che forse sarebbe venuto il giorno in cui, per disgrazia e monito agli uomini, la peste avrebbe svegliato i suoi topi e li avrebbe mandati a morire in una città felice”.