Potrebbe essere una coincidenza curiosa o forse un segno dei tempi: per il secondo anno di seguito a Cannes, la Palma d’oro è vinta da un film asiatico (l’anno scorso toccò a Un affare di famiglia di Kore’eda Hirokazu) che racconta di una famiglia povera ed emarginata e dei suoi modi per svoltare. Ma rispetto alla tenerezza del film giapponese, Parasite del sudcoreano Bong Joon-ho è un film cattivo, divertente, esplosivo e travolgente, per chi scrive il migliore del festival (come anche quello dello scorso anno, altra coincidenza).



Una Palma meritata, perché il film riflette sui limiti dell’ascensore sociale e il cinismo di un sistema che porta a credervi attraverso una costruzione cinematografica strepitosa, e una Palma storica, la prima vinta da un film della Corea del Sud. Altro premio storico va ad Atlantique di Mati Diop, prima donna di colore in concorso, che vince il Gran premio della giuria con una storia di amore impossibile e riscatto sociale venato di mistero e di un rapporto genuino e veracemente africano con il soprannaturale. Il premio della giuria, diremmo la medaglia di bronzo, la vincono due film ex-aequo: il sorprendente Les misérables di Ladj Ly, poliziesco urbano duro e intelligente che racconta le banlieue e le loro complicate composizioni (vincitore anche di un riconoscimento dei tecnici per il montaggio e la fotografia), e Bacurau di Kleber Mendonça Filho, bizzarro action-movie brasiliano in cui una multinazionale americana gioca alla caccia all’uomo con gli abitanti di un villaggio.



La giuria presieduta da Alejandro Iñarritu e composta da ben 5 registi – tra cui Alice Rohrwacher – non ha dimenticato i film ritenuti migliori nella competizione: il bellissimo Dolor y gloria di Pedro Almodòvar vede riconosciuta la splendida prova di Antonio Banderas, la più intensa ed emozionante dell’intera carriera, l’altrettanto toccante Portrait de la jeune fille en feu di Céline Sciamma invece vince il premio per la sceneggiatura che descrive la nascita di un amore tra una pittrice e la sua modella nella Francia dell’800. Molto più discutibile il premio alla regia ai fratelli Dardenne per Il giovane Ahmed, storia della radicalizzazione islamista di un ragazzo, da molti ritenuto il loro film peggiore.



Emily Beecham, protagonista del film di fantascienza Little Joe ha vinto il premio per la migliore attrice, mentre a Elia Suleiman, maestro del cinema palestinese che riflette sul suo popolo e la sua condizione di apolide attraverso uno sguardo di comicità tra Buster Keaton, Jacques Tati e il primo Woody Allen, ha ricevuto una menzione speciale per It Must Be Heaven. Resta senza premi, ma con ottimi riscontri dalla critica e dal pubblico italiano che lo sta vendendo in sala, Il traditore di Marco Bellocchio, film che tratta il pentimento di Tommaso Buscetta e il suo rapporto con lo Stato attraverso la gigantesca interpretazione di Pierfrancesco Favino, come senza premi resta Terrence Malick e il suo A Hidden Life, che però ha vinto il premio della giuria ecumenica.

Da segnalare, nella sezione Un certain regard che mostra i film più radicali, di ricerca linguistica o di modalità espressive più nuove, i riconoscimenti dati dalla giuria di Nadine Labaki ad alcuni film belli o molto belli che arricchiscono un festival: A vida invisivel de Euridice Gusmao (miglior film) di Karin Ainouz, Beanpole di Kantemir Balagov e Jeanne di Bruno Dumont.

Quella del 2019 è stata forse la migliore edizione degli ultimi anni, ricca di film belli o bellissimi, di sguardi originali e di potenze espressive, capace di mostrare i vari lati del cinema attraverso scelte oculate e soprattutto potendo contare su una stagione che, rispetto ai due anni precedenti, era forse più ricca di film interessanti. E sono, dopo qualche edizione di latitanza, i grandi eventi, i film che tutti attendono, che suscitano scalpore e di cui non si può non discutere: come Once Upon a Time in Hollywood di Quentin Tarantino, che ha lasciato più di una perplessità ai critici ed evidentemente anche ai giurati (è comunque un film formalmente e concettualmente di grande fascino e interesse), o Mektoub My Love: Intermezzo di Abdellatif Kechiche, in cui l’alternanza ossessiva di corpi che danzano in discoteca e parole quotidiane, inframezzate da una lunghissima sequenza esplicita di sesso orale, ha provocato malumori e contestazioni, ma anche riflessioni sullo sguardo da parte del regista franco-tunisino.

Il cinema è anche, soprattutto a certi livelli, lo specchio di idee e visioni del mondo, uno specchio fatto per riflettersi, ma anche per guardare il mondo da prospettive diverse, uno choc salutare oppure una boccata d’aria. Quest’anno, il festival di Cannes è riuscito a lucidare quello specchio.