Se pensiamo che Jingle Bells, la canzone natalizia “laica” per eccellenza, non è stata scritta pensando al giorno di Natale, ma per il Giorno de ringraziamento da James Pierpoint a metà del XIX secolo, allora ci sta anche che canzoni che non sono natalizie finiscano per diventare tali. E’ il caso di River, brano della cantautrice canadese Joni Mitchell, pubblicata originariamente nel 1971 nel disco Blue, considerato il suo capolavoro, che già dal titolo dice tutto. Per gli americani infatti “blue” (da cui blues, il genere musicale degli afro americani) significa, oltre che il colore, “tristezza, essere tristi”.
Blue è infatti una sorta di concept album meraviglioso, in cui la Mitchell trasferisce tutto il dolore per una serie di relazioni affettive corrotte, finite, che rimpiange con il cuore lacerato.
River è una di queste, ma il suo destino è curioso: è diventato uno dei brani più usati nelle raccolte di canti natalizi. In un articolo pubblicato sul Washington Post alcuni anni fa, l’attore e cantante inglese Michael Ball racconta di essere andato a una recita natalizia scolastica e di essere rimasto di stucco quando li ha sentiti intonare proprio questo brano.
È vero, la sua melodia iniziale è “Jingle Bells” suonata in chiave minore, e il testo dice: «Sta arrivando il Natale, stanno tagliando gli alberi / Stanno appendendo le renne, cantando canzoni di gioia e di pace». Alla fine, però, River è una canzone triste che parla di una storia d’amore finita male e di una donna che vuole scappare il più lontano possibile dalla propria infelicità, e che canta: «vorrei avere sotto di me un fiume, su cui pattinare via». Questa situazione strappalacrime avviene durante le feste, ma solo per caso.
Ma è un brano pieno di tristezza, di senso di perdita, di voglia di scacciare questi sentimenti, mentre il Natale è associato comunemente come la festa della gioia massima. Eppure il giorno di Natale, secondo le statistiche, è il giorno in cui si verifica il maggior numero di suicidi. Dettati per lo più dal contrasto tra la propria solitudine e la felicità altrui. Questa cosa la dice lunga di come nella mentalità comune, soprattutto quella consumistica odierna, il dolore debba essere qualcosa che si allontana a ogni costo, da cancellare, da nascondere, quando tutti fanno festa. Non è accettabile. Aspettando il giorno dopo Natale, quando tutto tornerà triste come prima.
Scherzando, durante una intervista, la stessa autrice del brano ha detto: «Avevamo bisogno di una canzone natalizia triste, no? Nello spirito del “fan…o il Natale”, ecco». Ha però aggiunto: «La mia generazione – hai presente, la generazione dell’Io – è nota per essere narcisista, un po’ alla Peter Pan. E quindi parla di questa nostra incapacità, di quelli che si ritrovano a dire “sono egoista e sono triste”. Un sacco di gente pensa che sia una canzone che parla di una sofferenza mia personale, ma credete che fra le persone della mia età io sia l’unica a provare queste cose? E tutte quelle cover, allora?».
James Taylor, collega cantautore e ex amante della Mitchell che anche lui ha incluso River in una raccolta di canti natalizi, ha intuito perfettamente il senso del brano: «Inizia con la descrizione di un Natale “commerciale” per le strade di Los Angeles, e poi la giustappone a questo fiume ghiacciato: è come se dicesse “Il Natale mi sta buttando giù”. Il Natale è citato solamente nel primo verso, quando poi dice “vorrei avere un fiume su cui pattinare via”: è una cosa meravigliosa, dare le spalle al Natale e a tutta la sua costruzione commerciale e respirare l’aria pura dei boschi vicini a un fiume ghiacciato. È davvero una canzone triste». Triste ma realistica, onesta.
Un’altra collega, Linda Ronstadt, che ha incluso il brano nel suo disco natalizio del 2000, amica personale di Joni Mitchell, si spinge più a fondo: probabilmente c’entrava la figlia di Mitchell, che era nata quando aveva 21 anni e stava per trasferirsi a Toronto. Mitchell diede via sua figlia in adozione e non ebbe contatti con lei fino al 1997.
Qualunque sia il significato, poco importa. Domani sera, quando avrete finito i festeggiamenti, seppur ridotti per via del lockdown, anzi proprio per quello, mettetela sul giradischi e pensate a tutte quelle persone, nelle corsie degli ospedali, ai familiari delle oltre 60mila vittime del Covid che non hanno potuto passare questa giornata con loro, a chi si trova nella solitudine delle loro esistenze, e hanno avuto un Natale triste. Perché questa è la vita, tutta intera, non quella delle apparenze costruite a tavolino dalle pubblicità televisive.