Non guardo mai la televisione, un circo che spesso offre un intrattenimento vuoto di senso. Ostenta l’orrore e la melma, appellandosi al diritto di cronaca, ma ogni tipo di comunicazione è un travaso, un racconto parziale dei fatti accaduti, nei casi peggiori un’alterazione della verità. Negli anni 70 Frank Zappa cantava della seduzione del mezzo televisivo, la canzone s’intitola “I’m the Slime”: “Potrei essere vile e pernicioso, ma non puoi distogliere lo sguardo. Ti faccio pensare che sono delizioso con le cose che dico… Sono la melma che trasuda dal tuo televisore”.



Il tubo catodico può alimentare un fuoco distruttivo per poi documentarne gli effetti; gioca come il gatto col topo, dando visibilità a un episodio cruento, ergendosi a giudice e sapendo di poter condannare i presunti colpevoli quando si vuole e a reti unificate. La morbosità degli spettatori riguardo la cronaca nera viene dileggiata da Samuele Bersani nel brano “Cattiva”: “Chiedi un autografo all’assassino, chiedigli il poster e l’adesivo e approfitta finché resta dov’è. Cattiva, spietata è la mia curiosità impregnata di pioggia televisiva. Comincia un’altra partita.” Ho conosciuto il potere pervasivo della televisione apparendo sulle reti nazionali. Scopro l’acqua calda, ma la realtà rimane terribile. Credevo che nessuno o quasi mi avrebbe visto, eppure fui travolto per lunghi giorni dall’affetto del pubblico curioso di conoscermi.

Un’improvvisa popolarità che poteva trasformarmi da persona consacrata a personaggio da consacrare, appetibile per il pubblico affamato di storie che sanguinano vita e morte. Ogni volta che ascolto “Get Famous” dei The Mountain Goats arrossisco di vergogna, quel brano mi ricorda d’essere stato per qualche giorno un morto di fama. La notorietà inebria, pur se inattesa attiva un processo pericoloso, ossia l’illusione di essere adeguato ai palcoscenici televisivi per annunciare il Vangelo. Una vera tentazione, “un eccesso disfunzionale” come canta Peter Gabriel nella canzone “The Barry Williams Show”, tratta dall’album “Up”.  In essa il cantante inglese descrive il clima surreale di uno studio televisivo, trasformato in un ospedale in cui si fanno chiacchiere e soldi sui malati. Sembra scritta oggi, realissima. Nella canzone, come nella realtà mediatica, gli ospiti intervistati sono sé stessi. Senza alcuna censura, raccontano di aver picchiato l’ex fidanzata, della voglia di uccidere il proprio vicino, di una figlia che si prostituisce, di un amante che ha ferito i sentimenti, di una ragazza diventata uomo.

Rimanendo a casa qualche giorno con i miei genitori, ho potuto constatare la quantità di telegiornali che guardano mentre consumano la colazione, il pranzo e la cena. Nelle circostanze in cui dovrebbero ricrearsi e allentare le tensioni quotidiane, vengono bombardati con statistiche d’infettati e di morti, di proteste sociali causate dalla povertà, loro che vivono di misere pensioni e che trascorrono gran parte del tempo in ospedale per malattia. Un cantante giovanissimo italiano, Moci, canta in “Telegiornale” di aver sentito dal tg che si muore vecchi e pure male. Si conosce il destino guardando la televisione, pronta ad aggiornarci sulle condizioni delle nostre anime con speciali in diretta tv.

Dallo stereo di casa premo il tasto “play” sul nuovo album di Aloe Blacc, “All Love Everything”, perché quell’ottimismo di cui è intriso il disco arrivi dritto al cuore di due anziani spaventati dall’attualità. Il brano “May Way” inneggia alla resistenza in un mondo che vuole metterli in ginocchio, un testo in cui l’artista si fida di Dio: “Puoi gettarmi il mondo in faccia, la paura mi dà vita… Ogni volta che costruiscono un muro intorno a me lo abbatterò, e dirò che vivrò i miei sogni. Anche quando le inondazioni mi circondano per annegarmi, trattengo il respiro e prego”.

Definisco così una playlist da trasmettere in radio, il canale che preferisco per parlare di Dio senza mai nominarlo, dando voce alle parole che creano vita e relazioni. Le prossime volte andrò in onda per dare coraggio agli ascoltatori terrorizzati dalla pandemia, frustrati dagli spot in tv che propongono modelli di vita irrealizzabili, specie adesso che attraversiamo la crisi sociale ed economica più grave del dopoguerra. La musica può essere un rimedio alla violenza verbale dei talk show, uno scudo per tenerci lontani da un ossessivo palinsesto informativo e da programmi tv spazzatura. La cronaca dei monaci trappisti di Frattocchie racconta che Papa Paolo VI, quando ricevette copie dell’immagine di Santa Maria dell’Equilibrio, radioso in volto esclamò: «Santa Maria dell’Equilibrio! Proprio quella che ci vuole!». Facciamo nostra l’invocazione, completandola con un verso di una canzone che suona come una supplica al Cielo: “Oh, non lasciarci morire finché siamo ancora vivi”. È il ritornello di “Bad Bohemian” dei British Sea Power.

Nella scaletta aggiungo la canzone “The Cause of Doubt & a Reason to Have Faith” in cui il deejay L.A. Salami sente il bisogno di avere qualcuno in cui credere. Cerca il bene e la bellezza, mostrando coraggio profetico: “Ho bisogno di un dio! E se il bene è difficile da trovare, allora perché c’è bellezza in un’alba? E se il fallimento non è per i bravi ragazzi, allora perché i profeti non obbediscono mai?”. Metto in lista “Help me” degli Stone Foundation, un soul che è sollievo per lo spirito, una richiesta di aiuto nel dolore.

Continuo con “Maestranza” dei Fleet Foxes, la canzone inneggia all’amicizia e all’unione degli spiriti. I versi cantano di abbracci mancati a causa del distanziamento sociale cui siamo costretti. C’è la consapevolezza che stiamo affrontando un nemico comune, il virus, dunque congiunti gli uni agli altri nella difficoltà. Come scrive Papa Francesco nell’enciclica “Fratelli Tutti” al numero 39: “Una tragedia globale come la pandemia del Covid-19 ha effettivamente suscitato per un certo tempo la consapevolezza di essere una comunità mondiale che naviga sulla stessa barca, dove il male di uno va a danno di tutti. Ci siamo ricordati che nessuno si salva da solo, che ci si può salvare unicamente insieme.”

Pur se lontani, di fronte alla realtà Covid ci sentiamo più vicini, accomunati dalla stessa croce e in attesa di abitare in modo nuovo questo mondo. Non a caso, chiudo la lista delle canzoni con “Sugar” di un sorprendente Sufjan Stevens, artista americano che non lesina riferimenti religiosi nei suoi dischi. Il recente disco “The Ascension” conferma questa benedetta inclinazione. In “Sugar” canta il bisogno di bontà e purezza per sostenerci a vicenda. La canzone appare leggera, il messaggio invece è chiaro e urgente: raccogli ciò che è buono, autentico e magnifico, fallo tuo e condividilo con gli altri. In un’intervista il cantante di Detroit ha invitato i suoi ascoltatori a scoprirsi chiamati alla vita, di nutrire l’anima dando amore e rispetto a chi ci circonda, abbandonando un vecchio modo di pensare e di agire, portando vita nuova nel mondo. Bisogna tracciare per sé e per gli altri un orizzonte di felicità, convinti di poterlo raggiungere insieme.

Bene è credere in Dio e avere fiducia nel prossimo, amarli entrambi nei giorni della luce e nell’ora in cui arriva inaspettata la notte. La musica fin qui elencata ricorda che la possibilità della sconfitta e la certezza della resurrezione sono scritte nella storia di ogni uomo e in ogni epoca storica. Nelle battaglie quotidiane c’è bisogno di sperare nell’aiuto di Dio. Lo scrisse il poeta Charles Péguy: “Dio ha sperato in noi, noi non spereremo in Lui?” Quello che Bruce Springsteen canta in “The Power of Prayer” e cioè la conquista del paradiso malgrado la morte. Per il potere della preghiera che tutto rinnova, perché anche la cenere fertilizza e arde nascostamente di vita.