I fatti di Milano-Corvetto fanno emergere un problema grave che può peraltro aggravarsi ulteriormente se non affrontato con intelligenza ed efficacia. Prima che il dibattito che si sta già scatenando sugli immigrati raggiunga livelli di scontro senza frontiere è indispensabile intercettare approdi indispensabili. A ragione, come ha segnalato Riccardo Prando, i milanesi si chiedono perché si devasti il luogo in cui si abita. E la risposta costituita dal “perché non lo si sente come proprio” e quindi “si sfascia tutto in nome di una libertà sognata e promessa che non esiste” è vera e agghiacciante al tempo stesso.



Questa rivela, nei fatti, la presenza e l’estensione di un errore sconcertante, quello di un’intransigenza della seconda generazione di immigrati pronta a cogliere un’offesa là dove non c’è che leggerezza e indifferenza; a vedere una volontà di esclusione là dove non c’è che inerzia burocratica e procedure inefficaci; a vedere un’ingiustizia occupazionale là dove non ci sono che incapacità di controllo, fino a prendere per vera la narrazione di un assassinio volontario là dove non c’è che l’inevitabile incidente conseguente ad una fuga spericolata (perché solo nella finzione cinematografica le fughe sconsiderate lasciano in vita i protagonisti, nel mondo reale no).



In realtà la libertà esiste ed è accessibile a tutti e la “gabbia”, nelle società democratiche, non vive che nell’immaginario della retorica. Ma detto questo occorre anche chiedersi se per queste seconde generazioni le strade per la realizzazione di sé stessi non sconfinino troppo facilmente nelle mitologie del successo, nelle narrazioni di una ricchezza a portata di mano che, quella sì, effettivamente non solo non esiste, ma occulta ciò che invece c’è: il paziente lavoro di formazione e di acquisizione delle competenze.

Il problema diventa allora quello di una società – la nostra – che esalta i successi ma occulta le fatiche e gli impegni che ci sono dietro; lasciata ai soli interessi di mercato, essa ripropone automaticamente l’universo dei consumi ostentatori, ma non quello dell’apprendistato, dello studio e del lavoro che ne costituiscono le fondamenta.



Non si entra con facilità del nostro mondo, occorre riconoscerlo. Nella nostra “società signorile di massa” – il termine è di Luca Ricolfi – virtù necessarie come l’impegno e la perseveranza da decenni non sono più al centro della scena. Siamo tra i primi a tollerare che si alimenti una cultura dove tutto sia presentato come possibile ed acquisibile, lasciando in ombra lo sforzo e l’impegno continui, l’entusiasmo per il lavoro ben fatto, il libro ben scritto, l’opera ben realizzata.

Si può evitare un simile fraintendimento? Probabilmente sì.

Si tratta nei fatti, almeno per le dimensioni che il problema ha assunto, di non limitarsi solo a rintracciare e perseguire i violenti, né al conseguente ed altrettanto necessario chiarimento su quanto è avvenuto, ma di sostenere un supplemento di società che già esiste ma resta ampiamente sottovalutata.

Le leggi e le regole, che vanno tutte rispettate da subito, non sono che il “minimo vitale”, la condizione di partenza che non può reggere da sola troppo a lungo. Se la prima generazione di immigrati si adatta, la seconda meno, ed i problemi nascosti sotto il tappeto si trasformano in brace che finisce per incendiare il tappeto stesso dove ci si era illusi di averla nascosta.

L’integrazione degli immigrati regolari, che viene unanimemente e ragionevolmente indicata da tutti come la meta da raggiungere, è anche un punto d’arrivo non immediato, né ancor meno il risultato automatico conseguente all’apertura degli accessi alle aule scolastiche ed ai laboratori di formazione. L’integrazione, in realtà, è il frutto di un percorso e di un’esperienza che richiede tempo e luoghi di realizzazione.

Le leggi vanno difese e sostenute anche attraverso una diminuzione strutturale dei momenti di frizione e di confusione. La dimensione societaria nella quale è indispensabile integrarsi deve avere le sue “stazioni di servizio”, i suoi luoghi di interscambio dove sia possibile conoscere i percorsi che consentono l’ingresso negli indispensabili universi di vita ordinaria (lavoro, scuola, servizi socio-sanitari, associazioni culturali, gruppi sportivi) e dove sia anche possibile comprendere i principi di diritto ed i valori che sostengono ciascuno di questi universi.

Ma affinché questi luoghi di assistenza siano efficaci, occorre che vi compaia una relazione significativa che non coincida con il semplice servizio di sportello. Negli Stati Uniti, assieme ad un’affezione dichiarata e convinta per l’unità politica rappresentata dalla nazione, sono le congregazioni religiose, i gruppi di volontariato i centri di solidarietà sociale, i sindacati e gli stessi gruppi sportivi a tenere le fila di relazioni sociali che, altrimenti, scivolerebbero inevitabilmente, più di quanto già non accada, verso la regressione razziale e la cultura del vicolo.

Queste indispensabili stazioni di incontro e di relazione dentro la cornice dell’appartenenza ad una collettività comune, restano ancora poco valorizzate, per non dire che sono francamente e serenamente ignorate nelle loro potenzialità e, più precisamente, nella loro indispensabilità. Solo attraverso di esse è possibile riparametrare un percorso di ingresso nel mondo che non sia affidato ai soli sportelli comunali o a quelli delle agenzie di servizio, gli uni e gli altri sospesi in un universo formale dove ogni empatia è semplicemente inesistente e dove l’indifferenza, troppo spesso, regna sovrana.

Lasciare che l’interfaccia tra il singolo e l’accesso ai luoghi di formazione e di assistenza sia mediata solo dagli sportelli della burocrazia è destinato a rivelarsi sempre più inefficace. Senza il recupero dei luoghi di relazione significativa, dove la relazione da formale diventa sostanziale e l’accompagnamento nel mondo della formazione, del lavoro e degli universi associativi è effettivamente realizzabile, le delusioni e le amarezze nel contesto della nostra società del divertimento ostentato e delle garanzie di status, non tardano a trasformarsi in disappunto prima e in rabbia poi.

Restano solo le forze dell’ordine a contenere gli incendi continui che una tale assenza finisce per provocare. Tali incendi saranno destinati a riemergere senza sosta, come la brace scambiata per cenere e, proprio per questo, lasciata scivolare irresponsabilmente sotto il tappeto.

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