Milano non è Parigi e il Corvetto non è una banlieue della capitale francese, con i suoi scontri a colpi di bottiglie incendiarie tra giovani e polizia, senza morti solo quando va bene. Ma potrebbe diventarlo, perché, gira che ti rigida, il nodo è lo stesso al di qua come al di là delle Alpi, si chiama integrazione sociale e diventa ancora più difficile da sciogliere se riguarda non la prima generazione di immigrati, ma la seconda.
I fattacci di zona Corvetto, dove alla morte alle prime ore di domenica scorsa di un diciannovenne egiziano, Ramy Elgaml, schiantatosi contro un palo dopo un inseguimento dei Carabinieri che avevano intimato l’alt a lui e al suo amico che guidava il motorino in contromano, hanno fatto seguito due giorni di gravi disordini con roghi ai cassonetti dei rifiuti, bus vandalizzati, cartelli distrutti, quattro ragazzi investiti da un’automobilista (uno è grave), due o tre arresti e conseguente panico tra la popolazione, hanno fatto emergere un malumore (eufemismo) che covava da tempo sotto la cenere.
Quello di giovani, spesso nati e cresciuti in Italia, verso i quali le politiche locali e di governo hanno allargato per anni inutilmente le braccia. Inutilmente e ideologicamente, se è vero che tanta politica di sinistra (ma non solo) ha spalancato loro le braccia con pochi “se” e senza “ma”, convinta che aprire le porte coincidesse ipso facto con l’assimilazione da parte delle comunità e magari garantisse una buona dose di voti nel momento elettorale. Pur non volendo fare di ogni erba un fascio, perché in tanti altri casi l’immigrato regolare s’è rimboccato le maniche, è stato accolto ed ora fa parte a pieno titolo della società italiana, è evidente che le cose non sono andate come ci si illudeva.
“Non ne possiamo più” gridano davanti alle telecamere i residenti del Corvetto, ma è chiaro che vivere da quelle parti è diventato sicuro come lo era nei villaggi americani ai tempi del Far West. E non stiamo scrivendo di un caso isolato, questo è certo, né di un problema facile da risolvere, ma anzi foriero di pericolose imitazioni. La morte di Ramy, pregiudicato noto alle forze dell’ordine, è diventata l’occasione per una protesta sobillata da chi (anarchici, sbandati di ogni risma, chi lo sa?) ha tutto l’interesse a rendere invivibile la vita degli altri perché invivibile è la propria.
E allora, tanto peggio tanto meglio. “Vogliamo giustizia, Ramy non ha mai dato problemi, è stato investito dalla Polizia” afferma il fratello, anch’egli residente al Corvetto, tante case popolari ma anche tanti laboratori d’arte contemporanea nell’illusione che la bellezza potesse salvare questo mondo (ma siamo sicuro che l’arte contemporanea esprima bellezza?).
Ed è evidente che il Ramy di cui parla è un’altra persona, la realtà cui fa riferimento è quella con cui intende giustificare la protesta violenta, la giustizia di cui va parlando è tutt’altro di quella di chi chiede solo di vivere onestamente. “Perché devastare il luogo dove si abita?” si chiedono attoniti i milanesi del Corvetto. Semplice: perché non lo si sente come proprio. E allora si sfascia tutto, in nome di una libertà sognata e promessa, ma che non esiste.
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