Per l’intera notte di giovedì e anche nella mattinata di ieri violenti scontri si sono registrati nella Città Vecchia di Gerusalemme Est, nei dintorni della Porta di Damasco. Dopo almeno una settimana di aggressioni singole nei confronti di palestinesi, sostenitori del movimento di estrema destra Lehava sono scesi per strada gridando “morte agli arabi”, provocandone così la reazione. Feriti almeno un centinaio di palestinesi e una ventina di poliziotti.



Secondo Filippo Landi, ex corrispondente Rai a Gerusalemme, “si tratterebbe degli scontri più violenti registrati a Gerusalemme dal 2015, quando venne ucciso un palestinese e tre giovani ebrei furono rapiti e poi uccisi anche loro”. Scontri, ci ha detto ancora, “che tutti gli esperti hanno definito preparati a tavolino per provocare la reazione palestinese”. In questo quadro, si registra l’intenzione, sembra concordata tra Abu Mazen e Netanyahu con l’approvazione degli Stati Uniti, di rinviare le elezioni parlamentari palestinesi, in programma il prossimo 22 maggio, per il timore che possa vincere l’ala più estremista, Hamas.



Cosa sta succedendo a Gerusalemme? Come mai questa improvvisa esplosione di violenza?

A giudizio di tutti gli osservatori presenti a Gerusalemme si tratta degli scontri più gravi dal 2015, quando un palestinese venne ucciso e tre ragazzi ebrei furono rapiti e poi ritrovati ammazzati. L’analisi ha messo in luce alcuni elementi di novità e anche di profonda preoccupazione.

Quali?

Va detto, innanzitutto, che si è giunti a questi scontri nel giro di una settimana di piccole ma quotidiane aggressioni nei confronti di palestinesi a Gerusalemme Est, ma anche Ovest. Piccole aggressioni che hanno alzato la tensione come non mai e che hanno poi prodotto alcune reazioni gravi, come l’aggressione di un giovane ebreo vicino alla Porta di Damasco. La novità è che questa ultima aggressione è stata rilanciata con un video per invitare giovani e meno giovani del movimento Lehava a scendere in strada, cosa che è avvenuta e che ha interessato il quartiere ortodosso fuori delle mura antiche e poi la Porta di Damasco. Tutto questo indica una volontà a tavolino di provocare incidenti.



Chi rappresenta Lehava? Che forza numerica ha questo movimento?

È un movimento che secondo fonti di polizia avrebbe circa 10mila militanti e che si è caratterizzato negli anni per essersi battuto contro ogni forma di integrazione a Gerusalemme, scagliandosi con forza, all’interno della comunità ebraica, contro ogni ipotesi di matrimoni misti non solo con i musulmani, ma anche fra ebrei e cristiani. Il suo fondamento è la non assimilazione.

Politicamente sostengono Netanyahu?

Diciamo che con l’ingresso in Parlamento dopo le ultime recenti elezioni di un partito di estrema destra che ha raccolto 5 seggi, questo movimento ha ottenuto uno sdoganamento dal punto di vista politico, perché adesso ha un suo punto di riferimento all’interno delle istituzioni.

Torniamo agli incidenti di Gerusalemme. C’è il rischio di una nuova Intifada?

La tensione resta molto alta, perché tutto questo sta accadendo durante il Ramadan. La polizia venerdì, per la prima volta da decenni, ha vietato ai giovani palestinesi di pregare nella piazza antistante la Porta di Damasco, dove per tradizione coloro che hanno meno di 40-50 anni erano costretti a pregare, mentre tutti gli altri potevano salire alla spianata delle Moschee.

Si sono registrati nuovi scontri?

La polizia ha spiegato questa decisione con ragioni di sicurezza, in realtà per la sua iconica durezza ciò ha alimentato il risentimento di una vastissima parte dei giovani palestinesi, che infatti hanno protestato. Ma è stato considerato ingiustificato anche da parte degli israeliani, tranne la polizia.

Pensa ci sia un piano orchestrato dietro questa provocazione degli ebrei?

Sicuramente alla base di questa vicenda c’è un piano per alimentare lo scontro. L’obiettivo può essere anche quello di dare una giustificazione per il rinvio delle elezioni palestinesi.

Ecco, appunto. Si dice che Abu Mazen e Netanyahu si siano accordati per rinviare le elezioni del 22 maggio con il sostegno americano, perché preoccupati della vittoria di Hamas. È così?

In realtà la preoccupazione non riguarda solo Hamas, ma anche il partito di Marwan Barghuthi, storico attivista di Fatah che da 19 anni è in carcere accusato di terrorismo. I sondaggi resi noti il 21 aprile da un importante centro di ricerche di Gerusalemme hanno mostrato due cose.

Quali?

Se il 31 luglio dovessero tenersi le elezioni presidenziali, Barghuthi sarebbe il vincitore, batterebbe alla grande sia Abu Mazen che un candidato di Hamas. Seconda cosa: alle elezioni parlamentari previste il 22 maggio il partito di Barghuthi raccoglierebbe il 10%, altrettanto Hamas e un 20% Fatah, che risulterebbe il vincitore. Il sondaggio ha preoccupato sia Abu Mazen che israeliani e americani, perché sembra sottostimare volutamente il consenso popolare sia di Barghuthi che di Hamas.

Cosa significa tutto questo?

Molta gente, pur dicendo che avrebbe votato, e la percentuale è pari al 75%, non ha voluto dire chi avrebbe votato.

Perché?

Perché nel 2006, alle ultime elezioni, dopo la vittoria di Hamas il governo fu isolato e rovesciato dalla comunità internazionale. La gente non vuole rivivere la stessa esperienza e far sapere chi vincerà, preferisce mettere tutti di fronte al fatto compiuto. Il problema non è solo e non è tanto Hamas, quanto un fronte che ha ritrovato in Barghuthi il suo leader e che probabilmente sia nelle legislative che nelle presidenziali potrebbe dare un forte dispiacere ad Abu Mazen, ma soprattutto a Netanyahu.

Se saltano le elezioni di maggio ci sarà una rivolta, uno scontro civile?

Non credo, paradossalmente i palestinesi sono diventati pragmatici. La maggioranza dei palestinesi pensa che le elezioni saranno rinviate, in qualche modo si sono messi l’animo in pace nell’accettare il rinvio. Tutt’altro discorso sarebbe il rinvio delle presidenziali, perché in Palestina il presidente ha un grande potere rispetto al Parlamento. Ma questo è un discorso tutto da verificare.

(Paolo Vites) 

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