L’abbandono di Kabul, con la rivincita dei talebani, seduti, quasi irridenti e sdraiati sulle poltrone del palazzo presidenziale, non sono solo una sconfitta militare degli Stati Uniti e dell’Occidente democratico. Sono la rappresentazione di una sconfitta politica, di un possibile, se non probabile, passaggio epocale e storico nel  gioco delle grandi potenze nel XXI secolo.



Tutto sembra accaduto nel giro di una settimana e invece quello che potrebbe diventare il grande appuntamento di questa epoca lo avevano compreso diversi analisti e grandi statisti anche del passato.

Si resta stupefatti di fronte a una frase che è addirittura del 1817 e che appartiene ai diari di Napoleone esiliato a Sant’Elena: “Lasciate dormire la Cina, perché al suo risveglio il mondo tremerà”. Eppure, come in tante altre occasioni, arriva sempre tardi il segnale, rappresentato dalla talpa che scava implacabile sottoterra e poi a un certo punto sembra uscire di colpo dal tunnel. Oggi per l’opinione pubblica, ammaestrata da media piuttosto approssimativi, ritorna in mente una frase ironica di Vaclav Havel che guardava all’ultimo ventennio del Novecento: è successo tutto così in fretta che non abbiamo ancora avuto il tempo di essere sbalorditi.



E c’è veramente da essere sbalorditi, perché in questo momento, dopo la tragedia di Kabul, a meno di abbagli clamorosi, il nuovo grande impero che sconvolgerà la geopolitica del mondo, che modificherà i rapporti di forza,  sembra destinata a diventare la Cina. Dalle carte della Cia sono già conosciuti gli interrogativi e i problemi di un grande studioso di Singapore, morto nel 2015, che, più che informare, spronava gli americani a ragionare, ponendo questi punti tutti da ricordare e sottolineare.

Primo: gli attuali leader della Cina sono seriamente interessati a scalzare a breve gli Stati Uniti come prima potenza in Asia?



Secondo: quale è la strategia della Cina per diventare la potenza numero uno dell’Asia?

Terzo: quali sono per la Cina i maggiori ostacoli alla realizzazione della propria strategia?

Quarto: quante sono le probabilità che la Cina abbia successo?

Quinto: se avrà successo, quali saranno le conseguenze per i suoi vicini in Asia? E per gli Stati Uniti?

Sesto: il conflitto tra Cina e Stati Uniti è inevitabile?

Erano i problemi che si ponevano dopo la fine della Guerra fredda tra Urss e Usa, dopo una globalizzazione sbagliata nell’impostazione liberista e con un nuovo quadro mondiale che si delineava inesorabilmente. Le grandi fratture, pur riguardando ancora anche le grandi ideologie ottocentesche e novecentesche, le visioni fondamentalmente basate sulla visione ideologica, aggiungevano una importante variante di “differenza di civiltà”, fino a diventare una sorta di “conflitto di civiltà” nei casi più drammatici.

Tutto questo avveniva, mentre si assisteva a un’ascesa incredibile della Cina da un punto di vista economico.

Si pensi solamente a quanto scritto da Graham Allison, direttore del’Harvard Kennedy  School’s Better Center to Science and International Affairs. Scriveva Allison: “Se gli Stati Uniti fossero una società di capitali negli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale essi avrebbero rappresentato circa il 50 per cento del mercato economico globale. Nel 1980 il dato sarebbe sceso al 22 per cento. E oggi, tre decenni di crescita a due cifre da parte della Cina hanno ridotto la quota statunitense al 16 per cento. Se continuasse l’andamento attuale, nei prossimi trent’anni la quota americana nella produzione economica globale si ridurrà ulteriormente all’11 per cento. Allo stesso tempo invece la quota cinese nell’economia globale schizzerà dal 2 per cento del 1980 al 16 per cento del 2016 e raggiungerà il 30 per cento nel 2040”.

I mutamenti e i problemi che emergono adesso seguono un percorso incredibile che qualcuno ha esaminato attentamente: dagli anni del “grande balzo” a quelli della “rivoluzione culturale”, fino alla svolta capitalistica imposta da Deng Xiaoping negli anni Ottanta. E da quella svolta, nonostante contraddizioni anche pesanti, escono uomini come l’attuale leader Xi Jinping.

In questo cambiamento, in questo realismo e in questa flessibilità sta la grande forza cinese.

Lucio Caracciolo, grande studioso di geopolitica, spiega: “Non credo che dare una targa alla Cina serva a molto. La Cina si rappresenta, e lo dice spesso anche il presidente Xi Jinping, come un’entità che ha 5mila anni di storia e che ha avuto varie forme di vita e di regime. Quella attuale è una dinastia imperiale, ideologicamente rossa ma con caratteristiche storiche e culturali che affondano nel passato. E questa idea della continuità, indipendentemente dalle dinastie e dai regimi, tiene insieme un popolo, che non aderisce necessariamente a un’identità ideologica, ma offre un notevole grado di consenso al regime. Che sarebbe  riduttivo classificare autoritario, nel senso che certamente lo è, ma esercita un’autorità che ha una tale autorevolezza che dipende dalle performance economiche assolutamente straordinarie degli ultimi quarant’anni. Che non hanno nulla a che vedere con il comunismo o con il socialismo. Anzi. Ma dipende anche dal forte senso di identità della gran parte della nazione cinese. Insomma la Cina è oggi un Paese estremamente nazionalista e patriottico”.

È questa immagine di forza identitaria, economica, militare, politica, storica che mette la Cina al centro dei nuovi grandi cambiamenti geopolitici e le dà un vantaggio enorme, proprio con la vicenda di Kabul, sugli Stati Uniti, con venti anni alle spalle di insuccessi di ogni tipo e con una sequenza di presidenti che hanno diviso letteralmente il Paese.

Consapevoli di questa forza, i cinesi si sono già subito posti come la vera potenza dell’Asia, aprendo ai talebani, cercando di  mantenere rapporti costruttivi con tutti gli stati islamici e difficilmente, per molto tempo, lasceranno spazio alle vendette talebane. Intanto le forze islamiste prenderanno uno spazio maggiore che in passato, affidandosi più ai cinesi che agli americani.

Che cosa comporterà tutto questo? Adesso per gli Usa e l’Occidente si preparano tempi veramente difficili, che vanno da un possibile ritorno a una sorta di “guerra fredda” a un isolazionismo degli Usa, a contrasti all’interno del mondo occidentale, sperando che tutto questo non arrivi lentamente a quello che gli studiosi di relazioni internazionali chiamano la “trappola di Tucidide”, più o meno lo stato di guerra tra due superpotenze, Cina e Usa, che prevalgono e che si contrastano tra loro con un alternarsi di alleati locali e occasionali. Sarebbe l’ultimo dramma di una storia plurimillenaria.

Dopo gli errori già fatti, l’Occidente potrebbe arrivare con altri errori a una sorta di suicidio della democrazia. Non si rischia poco. Dietro l’angolo di una classe politica democratica che sembra incapace e demotivata c’è il mondo dell’autoritarismo, della sharia e degli integralismi di vario genere. Ecco purtroppo, al di là della cronaca drammatica, che cosa nasconde la tragedia dell’Afghanistan.

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