Il ritorno dei talebani al potere in Afghanistan, oltre a rendere evidente un ventennio di scelte occidentali sbagliate, mette i giovani di quella nazione davanti ad un’imponente domanda. Il dominio delle forze alleate, infatti, non è stato soltanto un tempo e uno spazio di conquista, ma la possibilità reale – per migliaia di giovani – di assaporare una vita diversa da quella proposta dal regime, una vita che adesso in tanti già rimpiangono come un’occasione d’oro definitivamente tramontata.
È emblematico, in tal senso, il video di una blogger-influencer di Kabul – diffuso dalle testate giornalistiche occidentali – che, tra lacrime ininterrotte, denuncia il destino che sente abbattersi inesorabilmente sul suo popolo, ossia quello dell’oblio, quello della scomparsa completa degli afghani dal palcoscenico della storia. Tutta questa complessità geopolitica non è dunque altro che una drammatizzazione della questione di fondo che ha tenuto svegli i giovani di Kabul in queste notti di guerra di mezza estate: che cosa resterà di quanto vissuto negli ultimi vent’anni? Come impedire che le circostanze oscure che s’addensano sull’Afghanistan si portino via quel gusto di bene e di libertà sperimentato?
A ben vedere queste domande non riguardano solo coloro che sembrano sconfitti dall’incipiente dittatura talebana, ma chiunque abbia cominciato con slancio e con verità una delle tante opere della vita. Chiedersi che cosa rimarrà a Kabul dopo questa ennesima rivoluzione, infatti, non è tanto diverso dal chiedersi che cosa rimarrà di un matrimonio dopo un tradimento, di una vita dopo un lutto, di un promettente futuro dopo una cocente delusione, di una passione decisiva dopo le forche caudine di una malattia. E chiedersi in che modo il vento oscuro che adesso spira sull’Asia possa essere fermato non è in fondo molto diverso dal proporsi di fermare un vizio, un peccato, un eccesso, che sembra minare il bene vissuto alla radice.
La questione è dunque la stessa e la risposta anche. Nella vita, infatti, rimane ciò che ha iniziato a cambiare, nella vita rimani sempre te, quello che di te hai capito e scoperto e che nessuno può portarti via. A Kabul rimane la strada fatta e la possibilità che essa diventi strumento e giudizio per interloquire col nuovo potere costituito, in un matrimonio rimane il bene che ci si è voluti e che non può essere cancellato neppure dal più tremendo dei disonori, dopo una malattia o una morte rimangono le cose capite che adesso sono come munizioni nuove da giocare nella partita dell’esistenza. Niente può impedire che ciò che resta metta radici.
L’unico nemico dell’esperienza fatta è l’idealizzazione testarda che possiamo alimentare noi, per cui – se le cose vissute non accadono più secondo l’immagine che ce ne siamo fatti –, le cose stesse non possono più riaccadere. È la disperazione. Quello strano stato di vita che ci porta spesso a pensare che sia destinata per noi solo l’infelicità. Mentre ciò che comincia non è altro che una sfida, a volte dolorosissima, a ricominciare. Per non disperdere, per sperimentare tutta la forza e la potenza della Resurrezione.
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