Il 14 aprile Biden ha annunciato l’intenzione di ritirare le truppe americane dall’Afghanistan a partire dal 1° maggio. Ad oggi vi si trovano 2.500 soldati Usa – nel 2011 raggiunsero la cifra record di 100mila – e 7.500 soldati dei paesi Nato, tra cui 875 italiani.
Venti anni fa iniziava una guerra per ricercare Osama Bin Laden e smantellare Al Qaida, guerra che poi per il rifiuto dei talebani, allora al governo a Kabul, di cacciare il super terrorista e la sua organizzazione, si trasformava in una guerra ai seguaci delle madrasse con l’obiettivo della democratizzazione del paese.
È una decisione che non giunge improvvisa, è esattamente quello che avrebbe voluto fare già Trump, anche lui d’altronde nella scia di Obama.
Tre sono le questioni al centro della discussione. La prima, qual è il bilancio politico di questa guerra. Bilancio politico perché i costi umani ed economici sono abbastanza chiari. Il conflitto ha richiesto un tributo enorme: alle forze occidentali ben 3.500 caduti, tra cui 53 soldati italiani, più di 20mila feriti, a cui vanno aggiunte 60-65mila perdite tra le truppe regolari dell’esercito afghano, e circa 100mila mila civili caduti. Per un costo economico per le finanze Usa pari a 2.261 trilioni di dollari!
La seconda questione: qual è la situazione che il ritiro americano si lascia alle spalle, quali forze controllano il territorio e quale sarà il destino del popolo afghano?
In ultimo, perché Biden ha preso questa decisione, quali sono le motivazioni che hanno spinto il presidente Usa a intraprendere questa strada, anche scavalcando i consigli prudenti degli ufficiali americani, si vedano le parole del generale Petreus o gli ammonimenti anche di politici smaliziati come Hillary Clinton, dell’ex segretario di stato Condoleezza Rice o di Ryan Crocker, già ambasciatore in Afghanistan.
Un articolo non è la sede adatta per rispondere in modo anche superficiale agli interrogativi. Siamo costretti alla brevità e allora partiamo dall’attualità, cioè dall’ultimo problema, dai motivi che hanno spinto Biden al ritiro e che in un qualche modo offrono un accenno di risposta anche alle altre due domande.
Il presidente americano essenzialmente ha affermato che gli Stati Uniti hanno altre priorità a casa e all’estero e su tutte la preoccupazione della sfida con la Cina; che ha poco senso mantenere truppe in un numero imprecisato sul suolo afghano per un tempo altrettanto incerto, perché il terrorismo in quel paese non è un fatto episodico ma strutturale, endemico; che non vi è nessuna ragione per supporre che le condizioni per posticipare il ritiro delle truppe in un domani saranno migliori, che cioè sia ragionevole sperare in un accordo di pace con i talebani.
Sono motivazioni convincenti? Solo in parte. Il dato di fatto certo è che dopo venti anni di una lunga guerra contro un nemico assolutamente più debole in termini di armamento, i talebani controllano il 14 per cento della popolazione ed il 19 per cento del territorio afghano mentre un altro 48 per cento è conteso.
La situazione afghana ricorda il ritiro dal Vietnam, certo i tempi sono cambiati e in primo luogo non c’è più la guerra fredda. Sembra che gli Stati Uniti, nel loro stile repentino, si siano stancati di questa guerra, che abbiano scoperto improvvisamente che non era più importante sul piano strategico. Che quegli obiettivi sbandierati ai quattro venti come inderogabili, la guerra al terrorismo globale, la guerra contro gli imperi del male, non siano adesso di rilevanza assoluta, o per lo meno che i mezzi impiegati non siano più ritenuti validi, o che in fondo quel teatro non sia più centrale. Ma se queste affermazioni possono essere vere, allora sarebbe necessario entrare nello specifico, per lo meno per il rispetto dei caduti del proprio paese e degli afghani che ci hanno creduto.
In secondo luogo, sarebbe necessario presentare un piano alternativo per la gestione della situazione nei prossimi anni. Perché quello che è poco ma sicuro è il fatto che la guerra in Afghanistan è iniziata prima degli americani, con l’intervento sovietico nel Natale del 1979, e continuerà dopo il ritiro dei soldati dei paesi occidentali, perché è non è una guerra ma un insieme di conflitti armati religiosi, tribali, etnici, politici, ideologici fusi insieme a cui si aggiungono potenze esterne. Perché più che ad una guerra moderna, il conflitto afghano assomiglia ad un caos di guerre private, di faide medievali ai tempi dell’informatica. Dove il terrorismo è una delle tante armi che il nemico adopera. Forse tutti i paesi, anche l’Italia, dovrebbero spiegare ai propri cittadini come pensano di gestire la nuova situazione.
Gli obiettivi in fondo sono chiari. Prima di tutto i paesi Nato devono impedire che i talebani si vendichino sulle comunità e sugli amici degli occidentali nelle zone in mano a loro. È l’obiettivo più importante perché ha una valenza morale e politico-simbolica enorme, perché è necessario dimostrare agli occhi del mondo che gli alleati non si abbandonano. Allo stesso tempo, gli Stati Uniti devono offrire ospitalità e rifugio agli afghani che vorranno lasciare il paese. In secondo luogo, la Nato deve difendere le tribù e le popolazioni alleate nelle zone liberate. È necessario inoltre dissuadere in modo duro e chiaro i talebani da ogni velleità di far ridiventare il paese un santuario per i terroristi come Al Qaida. In ultimo, vi sono da gestire due temi umanitari: l’enorme problema dei rifugiati, secondo dati Unhcr quasi 2 milioni e 700 mila sparsi tra Pakistan e Iran, e sicuramente un nuovo flusso di immigrati clandestini verso l’Europa.
Ad oggi non vi è nessun progetto politico di lunga scadenza, nessuna idea su cosa fare dell’Afghanistan, su quale formula istituzionale di convivenza pacifica costruire il futuro. In fondo, come hanno notato molti commentatori americani, si tratta solo, prendendo a prestito una metafora del football, della speranza nella Hail Mary game, nella partita dell’Ave Maria, in un lancio lungo dal fondo campo, in “che Dio ce la mandi buona”, come diciamo noi.
Ma per raggiungere questi obiettivi, gli Stati Uniti da soli non possono farcela. Hanno bisogno di coinvolgere tutti gli interessati, in primo luogo i paesi confinanti. La Cina non ha nessun interesse che i talebani, portatori di un’ideologia islamista sunnita, si diffondano fuori confine o aiutino la popolazione cinese musulmana come gli uiguri, che Pechino per altro reprime in modo brutale e incivile. E che ha estrema necessità per il suo sviluppo economico di aprire la strada, attraverso un Afghanistan pacificato, verso il porto di Gwadar nel Pakistan sul Mar Arabico, insomma deve far funzionare quel corridoio su cui ha investito ben 62 miliardi di dollari.
La Russia ha anch’essa necessità di bloccare ogni comunicazione tra talebani e insorti ceceni di fede islamica, ed ha anche bisogno di fermare il traffico di oppio con l’Afghanistan visto che la droga è una delle piaghe più vive dell’ex Unione Sovietica – tra l’altro nel 2010 vi sono state anche operazioni congiunte tra Nato e Russia contro le raffinerie di droga in quel paese.
L’India, a sua volta, vede come il fumo negli occhi un regime fondamentalista a Kabul, per giunta vicino al nemico Pakistan. Rimangono appunto Karachi e il regime iraniano degli ayatollah. Il Pakistan ha sempre avuto un comportamento a dir poco ambiguo, ma è molto sensibile alle pressioni cinesi, anche perché adesso i talebani poco rispondono ai servizi pakistani. Mentre l’Iran, se era ben contento di veder impelagato il Grande Satana in Afghanistan, deve anche pensare a difendere i 6-7 milioni di hazari sciiti che là vivono, nemici giurati dei talebani sunniti e per lo più pashtun, e di provare a bloccare l’entrata di droga nel proprio paese.
Solo se Biden e gli alleati (ma gli Usa hanno concordato con la Nato il ritiro?) si dimostreranno all’altezza di questi problemi, ci sarà qualche speranza per quel paese.
Rimane una questione aperta. Di solito il ritiro di una potenza da una guerra non vinta, per non dire persa, viene letto dagli avversari come un atto di debolezza che significa l’apertura di una finestra di opportunità di cui approfittare – vedi ad esempio l’Ucraina. Ma anche qui, il Vietnam fa scuola. Quando Nixon capì che il Vietnam era perso, e quella fu veramente una sconfitta senz’appello, lanciò una politica di regionalizzazione di quella crisi – la così detta Guam Doctrine – per dedicarsi ai problemi strategici di ampio respiro, come l’isolamento dell’Urss attraverso l’apertura alla Cina.
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