La ritirata dall’Afghanistan degli Stati Uniti e della Nato, con la vittoria dei talebani, ha riportato in primo piano il Pakistan e la sua complessa situazione interna e geopolitica. Importante, quindi, l’intervista del Sussidiario a Paul Bhatti, fratello di Shahbaz Bhatti, il primo cattolico diventato ministro in Pakistan, nel 2008. Ministro per le Minoranze, si adoperò in difesa delle minoranze religiose in nome della giustizia sociale e della libertà religiosa. Una delle sue principali battaglie fu per la riforma della legge sulla blasfemia, alla radice di tante persecuzioni, di cui il caso più noto è quello di Asia Bibi.
Arrestata nel 2009, Asia viene condannata a morte ma, grazie a una serie di ricorsi e di manifestazioni internazionali in suo favore, nel 2018 viene infine assolta e liberata da una sorprendente, per il Pakistan, decisione della Corte Suprema. Il governatore musulmano del Punjab, Salmaan Taseer, favorevole all’assoluzione di Asia e sostenitore della riforma della legge, viene ucciso due mesi prima di Bhatti da una sua guardia del corpo. Sia Bhatti che Taseer erano membri del Partito popolare pakistano, la cui leader Benazir Bhutto era stata uccisa nel 2007 in un attentato che fece 20 vittime. Quest’ultimo fu rivendicato da al Qaeda, mentre l’uccisione di Bhatti da Tehrik-i-Taliban Pakistan, emanazione dei talebani in Pakistan.
Nella sua intervista, Paul Bhatti si dice scettico sull’ipotesi di un supporto pachistano ai talebani, almeno a livello governativo, e ritiene non accettabile la loro presenza in Pakistan. Bhatti esprime il parere di tutti quei pachistani contrari agli estremismi, etnici e religiosi, e favorevoli a un’unità nazionale nel rispetto dei diritti e delle libertà di tutti. È la posizione e la battaglia che è costata la vita a suo fratello e a Taseer, ma rimane da vedere se questa posizione sia maggioritaria tra i pakistani.
Il dubbio sorge da una dichiarazione di Imran Khan, primo ministro pakistano, secondo il quale i talebani “hanno rotto le catene della schiavitù”, cioè hanno posto fine alla schiavitù culturale degli afgani. E afferma: “Quando si adotta la cultura di qualcun altro, si crede che questa sia superiore e si finisce per diventarne schiavi”. Potrebbe anche non essere un supporto esplicito della cultura talebana, ma suona comunque come un giudizio negativo sugli afgani “occidentalizzati”. Un giudizio strano per uno che ha studiato in Gran Bretagna e si è laureato a Oxford e che, dal suo curriculum, non appare certo come un estremista islamico.
Le dichiarazioni di Khan possono anche essere lette come affermazione di un nazionalismo pakistano, che non ha bisogno di “asservimento” ad altre culture, e un invito ai suoi concittadini a superare le numerose divisioni sociali, etniche e religiose in favore di un’unità nazionale. Molte sue iniziative di politica interna sembrerebbero portare in questa direzione, così come la politica estera esprime il tentativo di bilanciare le varie influenze e di evitare collisioni con altri Stati, anche se il conflitto con l’India sul Kashmir sembra lontano da una soluzione. I rapporti del Pakistan con gli Stati Uniti non sono più lineari come un tempo, molti accusano Washington di parteggiare per l’India, ma una rottura sarebbe rovinosa. Dall’altra parte, le relazioni con la Cina sono sempre più strette e concrete, centrate soprattutto su questioni economiche, e quanto avvenuto in Afghanistan tenderà a rafforzarle.
Una situazione che si mostra molto delicata, tenendo presente che il potere reale è in mano ai militari, essendo l’esercito pakistano piuttosto forte e ben armato. Inoltre il Pakistan, come l’India e la Cina, possiede ordigni nucleari. La vittoria dei talebani rischia di rendere la situazione più critica per il Pakistan, mettendo in difficoltà la sua politica di “non allineato” e di sostanziale equidistanza tra Usa e Cina. È difficile che i talebani si accontentino della vittoria a casa loro e smettano di operare in territorio pakistano, nel quale i pashtun sono la seconda comunità etnica (15%) dopo i punjabi (circa 45%).
Un punto su cui Khan e Bhatti sembrano convergere, in accordo probabilmente con la maggioranza dei pakistani, è che l’Afghanistan debba risolvere da solo i suoi problemi, pur invocando la massima solidarietà internazionale. Bhatti nell’intervista non parla di schiavitù culturale, ma dice: “È anche un bene che le forze internazionali si siano ritirate, in questo modo la popolazione afgana deve cominciare a pensare quale sia il suo futuro. Se continua a dipendere da forze straniere, la popolazione afgana non deciderà mai cosa vuole esattamente. Se adesso i talebani sono di nuovo al potere e questo agli afghani non piace, dovranno ribellarsi”. La storia è lungi dall’essere finita.
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