Com’era prevedibile, i talebani stanno adottando la strategia che li condusse alla conquista dell’Afghanistan nel 1996. Prendere una provincia alla volta. Infine arrivare alla capitale Kabul, impiccando ai cartelli stradali i capi e sottocapi rimasti. I sovietici se n’erano andati sconfitti nel 1989 dopo aver invaso questa terra aspra e povera nel 1979 sognando un sbocco sui mari caldi. Lasciarono il Paese in balia di una guerra civile, insufflata anche dagli americani. I quali non sostennero i “leoni della libertà”, che furono tutti liquidati dall’alleanza tra talebani e Al Qaeda.
Le fonti dell’intelligence prevedono che i talebani conquisteranno l’intero Paese entro 40-60 giorni. Forse prima.
All’apparenza è stata una sconfitta militare degli Usa e dei suoi alleati occidentali. Gli strateghi di Biden negano. Sostengono che per 20 anni tenere sotto controllo il polmone terrorista del mondo ha difeso l’America da una minaccia che pareva destinata a concretizzarsi dopo l’11 settembre in modo apocalittico. Non è stato così. Attentati sì ma alla fine senza clamori di occupazioni guerresche. Sa tanto di scusa patetica. In realtà la sconfitta è assai peggiore di una débâcle militare. È la prova che l’Occidente non esiste più come civiltà contagiosa, che sa comunicare cioè qualcosa di più delle tecnologie e di un’organizzazione politica peraltro assai fragile.
Lo stanno dimostrando i ritiri prima dall’Iraq e ora dall’Afghanistan. I soldati – specialmente quelli italiani – hanno creato infrastrutture, strade e ponti, qualche scuola dove le bambine finalmente possono imparare a leggere e a scrivere, hanno anche istruito l’esercito. Il fatto è che l’esportazione della democrazia intesa formalmente come sistema di voto non è un bene tale da rendere coeso un popolo. L’ideologia jihadista propagatasi negli anni 90, diventata egemone nelle provincie pachistane e afghane nonché nell’antica Mesopotamia, ha spazzato via le identità di popolo che reggevano nei secoli.
Nel momento i cui gli eserciti occidentali se ne vanno, lo Stato che la diplomazia di Usa e Ue hanno costruito con i loro giuristi, tecnici, consiglieri, si liquefa. Ci vuole una ragione grande per resistere alla volontà di potenza di chi ha non solo e non tanto una maggior potenza di fuoco ma una coesione basata su una tremenda pienezza spirituale armata. L’esercito regolare di Kabul ha ancora adesso una superiorità di aerei (raid Usa), cannoni, carri armati, rispetto ai talebani. Come già quello di Baghdad avrebbe dovuto dominare nel 2011 l’Isis. Non accade.
La presenza militare occidentale nel 2001 avrebbe dovuto stabilire l’occasione di uno scambio profondo di esperienze di popolo. Una presenza dialogante di volontariato internazionale, come colonna strategica per restituire a quel popolo la dignità della propria cultura travolta dalla prepotenza di un islam che aveva recepito il totalitarismo wahhabita.
Invece questi innesti sono stati pochissima cosa. Si è privilegiato l’approccio di truppe scelte a quello di civili animati dal desiderio sostenere una rinascita non da coloni ma da “fratelli tutti”. E il sacrificio di tanti nostri soldati, che hanno davvero amato quelle genti, adesso risulta quasi sprecato. In quel “quasi” però c’è comunque un lascito di speranza. Qualcosa deve pur fiorire da una testimonianza di dedizione.
La geopolitica è poca cosa, non consola affatto il sollievo di certe cancellerie occidentali, al pensiero che adesso l’Afghanistan sarà una grana e occasione di scontro tra Russia, Iran e Cina. Non eravamo andati là per questo. Difendere noi stessi sì da attacchi futuri, ma per essere pienamente noi stessi, impedendo l’oppressione di un popolo. Cerchiamo di salvare almeno quelli destinati alla vendetta dei talebani.
Ricordandoci che non sarà il nichilismo consumista occidentale, condito di tecniche democratiche e di vago umanitarismo, a seminare con gli eserciti un po’ di pace e prosperità. Senza un compito di grandezza i popoli si disfano. Anche il nostro.
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