Gli scontri sono stati a Zvecan, nel Nord, al confine con la Serbia. E sono stati talmente violenti che sono rimasti feriti 30 militari della Kfor, la forza di pace della Nato, tra cui 14 italiani. Un episodio grave che, però, è solo l’ultimo di una serie di incomprensioni e contrapposizioni che stanno rendendo il Kosovo una polveriera. Il casus belli stavolta è stata l’elezione di sindaci albanesi in centri a stragrande maggioranza serba. Un risultato ottenuto con una bassissima partecipazione al voto perché i serbi hanno disertato le urne in aperto dissidio con il Governo kosovaro e le sue decisioni, l’ultima delle quali riguarda la volontà di imporre targhe kosovare e non più serbe in queste zone di confine.
È solo la riprova di un malessere diffuso che ha le sue origini nella guerra dei Balcani alla fine degli anni 90, quando alla Serbia è stato tolto il Kosovo, prima parte integrante del suo territorio. Una ferita ancora aperta che rischia di tornare a sanguinare se non si troverà un modo per far convivere le due popolazioni. La soluzione ai contrasti Serbia-Kosovo è difficile da trovare: un’idea potrebbe essere di concedere autonomia alle zone a maggioranza serba.
Di certo, come osserva il generale Marco Bertolini, già comandante del Coi e della Brigata Folgore in numerosi teatri operativi, tra cui Somalia, Kosovo e Afghanistan, è una situazione che va monitorata. Un nuovo conflitto nel cuore dell’Europa non conviene a nessuno.
Generale, i Balcani tornano a diventare una polveriera?
Nei Balcani in generale e in Kosovo in particolare ci sono situazioni di crisi potenziale, sempre incombente. Il Kosovo è considerato dalla Serbia una parte irrinunciabile del suo territorio. Con il tempo questa pretesa si è smorzata, nonostante i legami storici che legano il popolo serbo al Kosovo: il nazionalismo serbo, infatti, è nato con la battaglia della Piana dei Merli (1389), in Kosovo, appunto, dove la nobiltà serba è stata decimata combattendo contro i turchi. Il popolo serbo si considera un popolo soldato, un po’ difensore dell’Europa, ed è molto orgoglioso della battaglia in cui ha lottato contro gli ottomani.
Come si spiega la protesta nel Nord del Paese?
A Leposavic, Zvecan, Zubin Potok e Mitrovica si sono insediati i sindaci che sono stati eletti nelle elezioni del 23 aprile, cui hanno partecipato solo gli albanesi. Il boicottaggio da parte dei serbi non è stato tenuto in considerazione da parte di Pristina, che ha fatto insediare i sindaci anche se non rappresentano veramente la popolazione. Ma questa vicenda va letta alla luce di quella più ampia dei Balcani, caratterizzati da situazioni di equilibrio instabile lungo due linee di faglia: una è quella del confine tra Kosovo e Serbia, l’altra è quella che divide la Repubblica Srpska (Repubblica serba di Bosnia ed Erzegovina), la parte serba della Bosnia, dalla parte croato-musulmana. Anche lì c’è una comunità alla quale non è consentito far parte della Serbia.
Storicamente da dove nascono le recriminazioni dei serbi?
La Serbia ha accumulato parecchie frustrazioni insieme alla perdita del Kosovo, nel ’99: successivamente, in seguito a un referendum, ha perso anche il Montenegro, che era il suo accesso al mare. La sua leadership è stata imprigionata, processata e condannata: ricordiamo Milosevic e Karadzic. Anche il popolo si è sentito in qualche modo criminalizzato.
Una delle gocce che ha fatto traboccare il vaso nei centri a maggioranza serba è la volontà del Kosovo di sostituire le targhe serbe con quelle kosovare. Un po’ poco per scatenare una rivolta?
Ci sono provvedimenti che possono sembrare insignificanti ma hanno un alto valore simbolico. Nelle immagini degli incidenti si vedono sventolare le bandiere della Repubblica serba. In Kosovo c’è un monumento bronzeo a Bill Clinton che aveva voluto l’intervento della Nato nei Balcani. Per i serbi, invece, è un criminale. Quello delle targhe è un problema che si inserisce in questo contesto.
Ma i serbi che vivono in Kosovo vengono rispettati?
In Kosovo ci sono tantissimi luoghi di culto della Chiesa ortodossa, c’è il patriarcato di Pec, la cattedrale di Djakovica, luoghi di culto che nel 2002 furono anche teatro di disordini: il patriarcato di Pec e il monastero di Decani vennero salvati dai soldati italiani. Se ci sono serbi che vogliono andare in pellegrinaggio al Patriarcato di Pec devono essere scortati. Il monastero di Decani è protetto dalle forze di Kfor. È una enclave serba in un contesto ormai albanese.
Visto che alcuni comuni kosovari sono a maggioranza serba non era meglio annetterli direttamente al territorio di Belgrado? Sono stati fatti degli errori ridisegnando i confini territoriali?
C’erano anche altre località a maggioranza serba. Adesso non lo sono più perché i serbi sono andati via. È stata fatta una divisione con l’accetta dove sarebbe stato meglio utilizzare un bisturi elettronico.
Come si esce da questa situazione?
Intanto Blinken, il segretario di Stato Usa, ha preso posizione contro il Governo di Pristina, dicendo che sta creando instabilità ed è responsabile dell’escalation al Nord. Si è appellato al primo ministro del Kosovo perché fermi le azioni che intensificano le tensioni. Rimane però un nodo da sciogliere, quello di queste località che si sentono intimamente serbe e che non vogliono farsi omologare nel contesto albanese.
Si tratta di una tensione che risente anche della guerra in Ucraina?
Sì. La Serbia dal punto di vista culturale, religioso, linguistico, è molto vicina alla Russia: quello che succede in Ucraina si riflette anche in questo piccolo angolo dei Balcani.
La Serbia è legata alla Russia ma vuole anche entrare nell’Unione Europea. Come incide questo elemento?
La Serbia non ha interesse che ci siano questi disordini, le conviene un passaggio verso l’Unione Europea non contestato.
Diversi Stati Ue, però, non hanno riconosciuto il Kosovo: un problema che l’Europa deve risolvere?
Tra questi, ad esempio, la Spagna, perché riconoscere il Kosovo può costituire un problema in relazione alle rivendicazioni della Catalogna e dei Paesi Baschi. Quella del Kosovo è una secessione ottenuta manu militari che rappresenta un precedente pericoloso.
La Nato, intanto, è presente con la Kfor, che agisce anche a garanzia dei serbi. Ma nella sostanza cosa si può fare per calmare gli animi?
I rapporti tra Kfor e serbi sono sempre stati ottimi: loro sono la parte debole in Kosovo, dove vivono per la maggior parte in piccole comunità. Senza Kfor tanti serbi non sarebbero tornati nelle loro case. Quindi Kfor deve rimanere. C’è il rischio che quello che è successo nei centri del Nord venga “esportato” anche in altre zone.
Quale può essere una proposta concreta per sbloccare la situazione?
Certamente non si possono mandare via i serbi da Mitrovica, Zvecan, Zubin Potok e Leposavic e neanche quelli del resto del Kosovo. Bisogna trovare una soluzione che consenta una forma di autonomia almeno a queste province che sono, nei fatti, serbe. Nel resto del territorio bisogna che le comunità serbe vengano integrate, che per loro vengano riconosciute misure di tutela efficaci.
C’è il rischio di una guerra Serbia-Kosovo?
La Serbia vuole entrare nell’Ue, non ha interesse a una situazione del genere. Non credo che la Serbia abbandonerà mai le sue comunità in Kosovo e neanche che accetterà mai l’indipendenza di Pristina, però non ha interesse ad alzare la tensione. Nei Balcani la Serbia è un po’ un vaso di coccio, circondato da realtà che non sono proprio ostili ma neanche amiche. È isolata. È l’unico Paese che ha un rapporto disteso con la Russia: deve fare attenzione a come si muove.
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