In Bielorussia continuano ampie manifestazioni contro il regime di Lukashenko e il regime continua con la sua politica di dura repressione. A livello internazionale si sono levate molte critiche, con diffuse richieste di liberazione dei più di 600 arrestati dopo le recenti manifestazioni, che hanno visto la partecipazione di 100mila persone. L’Unione europea ha minacciato anche sanzioni, che non pare abbiano molto impressionato il governo, anche perché l’economia bielorussa dipende in larghissima misura dalla Russia.
La repressione contro l’opposizione è iniziata ancor prima delle elezioni con l’incarcerazione di suoi diversi esponenti. Svetlana Tikhanovskaya, principale avversaria di Lukashenko e probabile vincitrice in elezioni non truccate, si era candidata al posto del marito, arrestato prima della tornata elettorale. Ora la Tikhanovskaya si è rifugiata in Lituania dopo essere stata trattenuta e minacciata dalla polizia, come altri oppositori sono riparati in Polonia e uno perfino in Russia.
In Bielorussia è rimasta Maria Kolesnikova protagonista, suo malgrado di un oscuro episodio. Lunedì scorso è stata prelevata per strada a Minsk da uomini mascherati, per poi essere di nuovo arrestata al confine con l’Ucraina. Secondo la versione ufficiale, in macchina con lei vi erano altri due esponenti dell’opposizione che sono riusciti a varcare il confine, come confermato dalle autorità ucraine. La Kolesnikova sarebbe stata invece spinta fuori dalla macchina e poi arrestata per il tentativo di violare la frontiera. Secondo fonti locali riportate dall’agenzia Interfax-Ucraina, la Kolesnikova si sarebbe invece opposta all’uscita forzata dal Paese, strappando il suo passaporto così da impedire il suo ingresso da parte delle guardie di frontiera ucraine.
Dopo le elezioni il regime sembra preferire l’espatrio forzato agli arresti, accusando poi gli oppositori di essere fuggiti all’estero: in questo modo si libera di possibili leader delle manifestazioni, sperando che queste si esauriscano per stanchezza, senza trasformarli in possibili martiri. La maggior parte degli “espatriati” è in Lituania e Polonia, due nazioni particolarmente legate alla Bielorussia sul piano storico, ma che ora si presentano come entità ben separate. Un’altra arma in mano al regime per stimolare l’orgoglio nazionale: non a caso gli esponenti dell’opposizione hanno affermato di non “parteggiare” né per l’Ovest né per la Russia.
Una dichiarazione dello stesso Lukashenko a giornalisti russi, come riporta la Bbc, pone in rilievo il nocciolo del problema bielorusso, quando ammette che forse è stato troppo a lungo al potere, ma che non se ne sarebbe comunque andato in questo modo. Un’indicazione, forse, di essere disposto a rinunciare alla carica istituzionale, ma non al potere effettivo. Supposizione rafforzata dalla frase seguente, in cui manifesta la preoccupazione che, se se ne andasse adesso, cioè sotto la pressione delle manifestazioni popolari, i suoi sostenitori verrebbero “massacrati”. Un avvertimento, all’interno e all’esterno, che la sua caduta porterebbe il paese alla guerra civile e che, come detto in un precedente articolo, la transizione non può che essere concordata, salvaguardando gli interessi dell’élite attualmente dominante.
Come nelle vicine Russia e Ucraina e in tutti gli Stati sorti dalla frantumazione dell’Unione Sovietica, cancellata la copertura ideologica, il potere reale è stato ripartito tra la classe dominante nel vecchio regime, aparatchiki, oligarchi e via dicendo. Un fatto che in Occidente si vuole strumentalmente ignorare, con l’illusione di un passaggio diretto a sistemi tipici delle democrazie occidentali.