La grave situazione che si è sviluppata in Bolivia è quella di un Paese poco conosciuto internazionalmente, cosa che ha portato a interpretazioni spesso lontane dalla realtà dei fatti. Per questo abbiamo intervistato Cecilia Requena Zarate, eletta senatrice (anche se le elezioni poi sono state annullate e probabilmente verranno indette in tempi brevi utilizzando lo strumento del decreto di emergenza) per il maggior partito dell’opposizione al MAS di Evo Morales, Comunidad Ciudadana. Accademica di livello internazionale e attivista ecologista, oltre che consulente del ministero dell’Ambiente boliviano, Cecilia rappresenta una voce importante non solo nella politica, ma anche, soprattutto, nella cultura di un Paese di cui, lo ripetiamo, sappiamo ben poco.
Ci può fare un’istantanea della Bolivia come Paese, visto che è sostanzialmente poco conosciuto?
La Bolivia è un Paese ecologicamente molto differenziato: c’è una zona amazzonica, poi quella del Plata e infine le Terre Alte, popolate da gruppi indigeni molto diversi tra loro che si sono evoluti nel tempo. Nelle Terre Alte abbiamo i Quechua e gli Aymarà, che verso la fine nel secolo scorso iniziarono a emigrare nella parte amazzonica, dove si sono incontrati con gruppi indigeni autoctoni molto ridotti. Da lì sono iniziati dei problemi perché i primi non possedevano una cultura di gestione sostenibile del territorio e così hanno iniziato manovre di disboscamento massivo, specie nella zona di Chaparè, caposaldo di Evo Morales. Fatto che ha trasformato questa popolazione basicamente operaia e dedita all’estrazione di minerali in cocaleros, creando problemi sia di distruzione del territorio per rispondere alle esigenze del narcotraffico che di aggressione alle etnie locali, occupandone il territorio, spesso in aree protette.
Con quali conseguenze?
Le coltivazioni intensive di coca e soia transgenica hanno prodotto una quantità innumerevole di incendi, specie negli anni della presidenza di Morales. Bisogna chiarire questo per capire le grandi diversità tra le etnie indigene e come questa invasione abbia provocato conflitti. Per esempio, l’ultimo colossale incendio della Ciquitania, che non è un bosco propriamente amazzonico bensì di transizione tra l’Amazzonia e il Chaco, quindi secco e tropicale, che è stato incendiato per permettere una massiva distribuzione di terre, in un’area che ha vocazione forestale, al solo scopo di creare un’agricoltura intensiva.
Però la Bolivia possiede anche ingenti risorse minerarie…
Da quando la Bolivia faceva parte dell’Impero coloniale spagnolo non ha mai smesso di essere un territorio basato, tra le tante ricchezze, su di un’economia che potremmo definire estrattivista, in grandi quantità, di materie prime non rinnovabili e che genera un forte impatto ambientale, dedicata al mercato esterno e al regime delle “commodities”. Nella sua storia democratica e sotto Governi a volte socialisti e altre liberali, il Paese non ha mai saputo uscire da questo schema e anche quando i prezzi sia del gas che dei minerali (ai quali aggiungerei la soia) hanno raggiunto quotazioni stellari, contemporaneamente ad altre nazioni latinoamericane, ciò si è trasformato in crescita e benessere sociale, con diminuzione dell’indice di povertà, ma il crollo dei prezzi, che si sta registrando da alcuni anni, ha messo a nudo una crisi legata all’incapacità di sviluppare un’economia differente e sostenibile non connessa allo sfruttamento delle sole risorse.
E cos’è successo?
Ciò ha creato seri problemi di deficit fiscale, di Pil e di debito sia interno che estero. E bisogna anche sottolineare che l’80% dell’economia del lavoro boliviana è informale e basata sulla domanda oserei dire quotidiana. La maggior parte della popolazione non ha un impiego che si possa definire decente e regolare. Quindi, l’economia di consumo sulla quale il MAS (partito di Morales) ha basato la crescita è molto sensibile a fattori esterni: per questa ragione il “miracolo boliviano” non si può definire tale, ma è il risultato di uno shock esterno dovuto ai mercati internazionali. Di conseguenza, quando la festa finisce l’economia torna ad avere i soliti problemi.
Però negli anni della Presidenza di Morales non si è assistito anche a un’inclusione sia sociale che etnica in Bolivia?
Indubbiamente Morales l’ha esercitata anche attraverso un uso cospicuo di simboli: per esempio, attraverso l’uso della bandiera multicolore Whipala unita a quella nazionale. Ma questo vessillo rappresenta le etnie delle Terre Alte (i già citati Quechua e Aymara) non di quelle Basse, che hanno denunciato Morales all’Onu attraverso la loro rappresentante, Ruth Alipaz Cuqui, per aver distrutto e incendiato 5 milioni di ettari della foresta amazzonica per coltivazioni intensive come coca e soia, oltre agli allevamenti.
Quindi un’inclusione solo parziale delle etnie…
Oltretutto lo stesso Morales non si identificava come indigeno, ma ne ha assunto il vestiario solo dopo aver raggiunto la Presidenza, fatto che ha costruito una figura importante a livello mediatico anche internazionale: fino ad allora era solo un deputato e capo sindacalista cocalero, non parlando altra lingua se non lo spagnolo. Nel Parlamento il MAS ha una forte presenza indigena, ma senza una reale importanza politica se non numerica. L’inclusione però non è iniziata con lui, come cerca di far credere: Victor Hugo Cardenas, un indigeno Aymara, fu vicepresidente dal 1993 fino al 1997, sotto la Presidenza di Gonzalo Sanchez Losada. Una cosa importante realizzata dal MAS è stata quella della parità di genere, anche se la prima donna è entrata in Parlamento nel 1989. Di certo l’inclusione nel Parlamento deve continuare ad ampliarsi ed essere una presenza attiva, non limitata al solo numero.
Che ci può dire sulla corruzione di questi anni?
Secondo un documento della Bid (Banca interamericana per lo sviluppo) in Bolivia si è sprecato circa un 6% del Pil (ossia circa 2 miliardi di dollari) sia per incompetenza nella gestione pubblica che per la corruzione. Di esempi ce ne sono moltissimi nell’arco di questi ultimi 14 anni e sono dovuti a un concetto che era collegato, sotto altre presidenze, all’emergenza: quello di non indire aste per la costruzione di opere pubbliche. Ora è prassi la contrattazione diretta che spesso viene effettuata, nei suoi valori monetari, ancora prima di definire non solo i termini delle opere, ma pure i dettagli tecnici. In questo campo le imprese cinesi sono sempre le favorite.
Tornando all’attualità lei non crede che la Presidente ad interim Anez abbia fatto un errore quando, dopo aver assunto la carica, si è presentata al balcone dell’Assemblea agitando la Bibbia?
Sì, concordo, considerando che la Bolivia è uno Stato laico. E sottolineo anche che ciò non dovrebbe accadere specie in un Governo di transizione come l’attuale, il cui compito principale è quello di riappacificare la Bolivia e indire elezioni nel più breve tempo possibile. La Presidente è di Santa Cruz un’area di religione sia cattolica che evangelica. Oltretutto, togliendo il fatto dei brogli che le hanno invalidate, il partito dell’attuale Presidente (MDS, Movimento democratico sociale) si è classificato al quarto posto nelle elezioni, dietro il MAS, Comunidad Ciudadana e un partito ultraconservatore diretto da un religioso di origini coreane, che si chiama Chi. Insomma, con solo il 5% dei voti conquistati si dovrebbero fare grandi sforzi per mantenersi neutrali.
Cosa pensa delle dichiarazioni della ministra della Comunicazione, Roxana Lizàrraga, che ha accusato la stampa internazionale di sedizione, minacciando misure legali e di fatto costringendo i giornalisti a lasciare il Paese?
Credo che la Ministra dovrebbe garantire in primo luogo la possibilità di informare da parte della stampa, sia nazionale che estera. Ma anche chiedere ai giornalisti una visione più realistica di quanto sta succedendo in Bolivia, perché le differenti posizioni espresse dalla cittadinanza sono state filtrate attraverso un visione spesso stereotipata del Paese. Comprendo quindi la reazione di molti boliviani nei confronti di alcuni giornalisti stranieri.
Come mai?
Il Paese viene considerato alla stregua di una donna violentata alla quale non si crede. È duro credere che dopo quasi un mese di proteste pacifiche fatte per difendere il proprio voto, dopo che si è ripetutamente violata la Costituzione dapprima non ritenendo valido il primo mandato presidenziale, poi pretendendone un quarto attraverso un referendum di cui non si è riconosciuto il risultato, quindi con elezioni viziate da brogli giganteschi, si sia di fronte a un colpo di Stato quando Evo Morales è fuggito in Messico, dopo che i militari si erano rifiutati di intervenire e la polizia si era ammutinata. Insomma, dire che tutto questo è un golpe, vieppiù facendo passare la protesta per razzista e di destra, quando la maggior parte della popolazione è scesa in strada in difesa della democrazia e della Costituzione, della legalità e dei limiti per esercitare il potere, mi sembra assurdo. Oltretutto gli autori del supposto golpe non stanno nel potere e neanche lo hanno avuto. Il presunto capo del golpe, il Generale Kaliman, fedelissimo di Morales, è stato allontanato, come anche i capi delle forze di polizia, ma queste cose non si sono note a livello internazionale. Morales dal Messico dapprima ha detto di voler tornare per riappacificare il Paese, ma successivamente, durante una telefonata effettuata a un suo referente, ha invitato alla resistenza da effettuare bloccando sia gli approvvigionamenti energetici che alimentari.
(Arturo Illia)