LONDRA — Di questi tempi non è raro esprimersi inserendo nel discorso, a volte anche in maniera casuale, un termine che appartiene alla lingua inglese. Lo si preferisce ad una corrispondente espressione nella nostra lingua, anche se più corretta, perché tutto ciò che sa di straniero è spesso affascinante e ha il potere di avvolgere nel mistero il concetto, che perciò risulta più attraente. Tuttavia le cose si complicano quando si ha a che fare con “parole macedonia” formate in inglese, cioè casi in cui, come ricorda l’Accademia della Crusca, “una o più parole maciullate sono state messe insieme con una parola intatta”.



Per esempio, negli ultimi anni tutti impiegano continuamente la parola Brexit, tanto che è entrata a far parte dell’Oxford English Dictionary. Tuttavia, quando si consulta l’Oed, le cose non sono così chiare ed ovvie come sembrano, neanche per il popolo britannico.

Incominciamo a dire che questo è un termine anomalo, non solo perché si scrive con la lettera maiuscola, ma anche in quanto ha subito delle trasformazioni nel tempo anche piuttosto veloci: la parola Brexit, che è stata coniata solo di recente, inizialmente definita come “Brixit” o“Ukexit”, è composta dall’aggettivo british e dal sostantivo exit, e indica l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea. Il dizionario completa la definizione aggiungendo ”termine alcune volte usato con riferimento al referendum tenutosi il 23 giugno del 2016, in cui la maggioranza dei votanti decise l’uscita dalla Ue”.



Ma se le cose stanno davvero così, perché dopo quasi quattro anni dall’attivazione dell’articolo 50 del Trattato sull’Unione Europea che regolamenta l’uscita di un Paese membro dall’Ue, la volontà del popolo britannico non è stata ancora rispettata? C’è forse da qualche parte un maghetto, o uno spiritello maligno, che con tanto di incantesimo, si diverte a impedire il compiersi del volere di una grande democrazia, impaziente di staccarsi dall’Europa per poter ritornare protagonista nel mondo?

Il termine Brexit rimane un concetto ancora vuoto e pertanto non comprensibile, se non lo si lega ad un’altra parola molto diffusa, “no-deal”, che letteralmente vuol dire “niente accordo”. Questo è lo scenario peggiore: arrivare alla data ultima prevista per i negoziati senza aver raggiunto alcuna intesa con l’Unione Europea si tradurrebbe nel ripristino improvviso di tutti i controlli, le ispezioni e la burocrazia prevista per cittadini e merci extra Ue, peraltro violando l’accordo di pace tra l’Irlanda e L’Irlanda del Nord dell’aprile 1998, che aveva posto fine alla stagione del terrorismo e delle violenze. Uno scenario, quest’ultimo, che avrebbe conseguenze imprevedibili e potenzialmente catastrofiche anche da un punto di vista economico.



Da una parte c’è il primo ministro Boris Johnson insieme ai suoi irriducibili, che ha tentato fino all’ultimo di fare uscire, “senza se e senza ma”, il Regno Unito subito, entro il 31 ottobre, con o senza accordo con L’Europa. Per raggiungere il suo obiettivo, il primo ministro era arrivato addirittura a chiedere e ottenere dalla Regina la sospensione dei lavori parlamentari dal 9 settembre al 14 ottobre, praticamente mettendo il bavaglio ai parlamentari che non si sarebbero potuti opporre al no deal.

Non gli è andata bene: Westminster si è opposta, prima facendo mancare la maggioranza per un solo voto (è ancora viva l’immagine di un parlamentare conservatore che di colpo si alza per andarsi a sedere all’opposizione passando ai liberali), e subito dopo approvando a tempi di record insieme a un gruppo di Tory ribelli un progetto di legge contro la Brexit senza accordo, che dovrebbe concludere il suo iter lunedì con la firma scontata della Regina. Lo stesso giorno in cui il governo intende riproporre una mozione in favore del voto politico anticipato: mozione a cui peraltro i Liberali e Laburisti rimangono per ora orientati a far mancare il quorum.

Una cosa è certa: con questi ultimi avvenimenti, si rimanda per l’ennesima volta l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, e contemporaneamente la definizione di Brexit si trasforma da un’accezione negativa che si fondava sulla certezza della data di uscita, con o senza deal, a una meno negativa, più incerta per la data, ma forse con meno problemi di instabilità economica e sociale.

Tuttavia coloro che vogliono rimanere in Europa si sono fortemente opposti ai Brexiteers, non soltanto dimostrando, come in questi ultimi giorni, di poter inondare con milioni di persone pacifiche tutte le città britanniche, ma anche linguisticamente, proponendo il termine Bremain, letteralmente sconosciuto a noi Italiani. La cosa interessante è che da una parte non si può facilmente classificare la componente exit di Brexit come forma verbale, dall’altra la componente remain di Bremain è un verbo.

Tutto questo a noi, convinti europeisti e increduli spettatori, sembra un terribile pasticcio politico e linguistico.