Dopo la Brexit il voto del 6 maggio, con cui si rinnoverà l’Holyrood, il Parlamento scozzese, potrebbe rappresentare una data importante all’interno della lunga storia di 314 anni del rapporto irrisolto con l’Inghilterra.

A tal riguardo le intenzioni di Nicola Sturgeon sembrano chiare: la prima ministra scozzese, leader del Partito nazionale scozzese (Snp), è convinta che il suo partito otterrà una maggioranza schiacciante all’interno del Parlamento locale e di conseguenza ha palesato la volontà di indire un secondo referendum sull’indipendenza: “Se c’è una maggioranza chiara e democratica nel Parlamento scozzese per un referendum sull’indipendenza, non ci sarà alcuna giustificazione democratica, elettorale o morale per Boris Johnson o chiunque altro per bloccare il diritto delle persone in Scozia di decidere sul  proprio futuro”.



Parole che esprimono una chiara volontà e che si basano su un dato di fatto incontrovertibile: la Brexit ha cambiato le carte in tavola e la Scozia, che nel 2016 dimostrò di essere la nazione britannica più europeista – esprimendo una maggioranza schiacciante del 62% a favore del “Remain” –, sembra al momento essere ancora più lontana da Londra.



La Sturgeon, al potere ormai da sette anni, è il leader più autorevole della storia recente della Scozia, mostra una grande ambizione e determinazione che l’hanno portata a sbarazzarsi di Alex Salmond, il precedente capo del Snp, e di sfidare apertamente Boris Johnson. Al netto degli imprevedibili esiti che possono scaturire da un confronto fra due leader decisionisti e dallo stile politico populista, al momento le elezioni scozzesi rappresentano la più grande incognita sul futuro delle isole britanniche.

Sebbene non ci siano molti dubbi sul fatto che Johnson non recederà dalla posizione che lo vede assegnare al primo referendum sull’indipendenza l’espressione indiscutibile “della volontà di una generazione”, la questione dell’indipendenza scozzese rappresenta la sfida decisiva per il futuro della Gran Bretagna. Una questione che precede e per molti versi determina le ragioni e l’esito della Brexit.



Anche per questo motivo l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea è il frutto di una reazione che rappresenta una costante strategica della sua storia, ovvero la risposta di una classe dirigente che, a fronte di una minaccia alla sua integrità territoriale, agisce in funzione di un arrocco, orientandosi, al contempo, verso le certezze rappresentate dal mondo anglosassone.

Il fatto che il Snp sia apertamente europeista non può che aggiungere ulteriori tensioni a una situazione difficile e che probabilmente contribuirà a irrigidire le posizioni di Boris Johnson, il quale durante la pandemia – e perché no, nella vicenda calcistica della Super League – ha dimostrato di non aver timore ad andare allo scontro aperto con i suoi avversari. Un quadro che unito al fatto che l’Irlanda del Nord è sostanzialmente rimasta nell’Unione Europea, portandola ad avere una dogana fra Ulster e il resto della Gran Bretagna, fa capire il senso di accerchiamento che si può iniziare a percepire a Londra.

Le conseguenze di questo processo, in cui coesistono in modo contraddittorio forze centripete che guardano ad altre aree di influenza economica e culturale e la riconfigurazione in senso globale dell’anglosfera – di cui la strategia “Global Britain” rappresenta l’ambiziosa e forse poco realistica risposta –, al momento non sembrano indolori. Se su giornali autorevoli come The Times è possibile leggere che la Scozia ha tutte le capacità “per farcela da sola” sostenendo, a ragione, che la Brexit ha comportato un ingente danno per l’economia scozzese, va detto che la Gran Bretagna rappresenta ancora di gran lunga il più importante mercato di sbocco per i prodotti e servizi scozzesi e che il commercio fra Scozia e Ue vale meno della metà di quello con gli altri paesi britannici.

Inoltre il Snp è apertamente contrario alle politiche di austerity e il rientro nei parametri di bilancio dell’Unione Europea non sembra rappresentare un orizzonte particolarmente attrattivo.

Un quadro di radicale incertezza che stride con l’assertività palesata da Johnson e Sturgeon, ma che restituisce uno scenario in cui il primo ministro inglese, dopo aver superato in qualche modo la sfida storica rappresentata dalla concomitanza della Brexit con la pandemia, è consapevole che l’indipendenza scozzese unita alle vicende dell’Ulster implica una battaglia per la sopravvivenza stessa del Regno Unito, mentre  dalle parti di Edimburgo rappresenta un salto nel buio dagli esiti difficilmente immaginabili.

— — — —

Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.

SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI