Finirà (forse) solo questa mattina il braccio di ferro fra Letta e Calenda. Un confronto stucchevole, simile a quelli degli adolescenti in preda all’esplosione del testosterone, che va avanti da troppi giorni. Entrambi si giocano la faccia, e una fetta non irrilevante della propria leadership, ma sembrano prigionieri di se stessi, dei ruoli che si sono cuciti addosso. Letta quello del frontman nella corsa a sbarrare alla Meloni la strada a Palazzo Chigi, Calenda nella parte dell’homo novus, che vuole affermarsi come leader prossimo venturo.
Ma quanto vale questo accordo/non accordo? Secondo le stime fatte da Youtrend e Cattaneo&Zanetti almeno 16 collegi uninominali, una cifra non indifferente. Si tratterebbe di 12 constituency alla Camera e 4 al Senato, dei quali 15 andrebbero al centrodestra, e uno, quello di Acerra, con tutta probabilità al Movimento 5 Stelle.
Diventa evidente, allora, la delicatezza della trattativa in corso. E a ben guardare, ciascuno dei due contendenti ha pure delle ragioni dalla sua. Per il leader dem si tratta di mettere insieme una coalizione che non risulti già battuta in partenza. Dopo la rinuncia inevitabile a ogni tipo di rapporto politico con M5s, perdere per strada anche i centristi di Azione e +Europa significa dichiararsi sconfitto in partenza. E dopo una batosta il 25 settembre, le dimissioni da segretario del Pd diventerebbero il minimo gesto di coerenza e di dignità. Sul versante opposto, il fondatore di Azione mette sul piatto il valore aggiunto di una formazione stimata dai sondaggi fra il 5 e l’8% e l’esigenza di marcare il proprio peso e la propria identità.
Visto il meccanismo elettorale del Rosatellum la richiesta di mettere i candidati da lui distanti (Di Maio, Fratoianni, Bonelli, ecc.) nella parte proporzionale delle liste e non nei collegi uninominali ha una sua logica. Significa non chiedere ai propri sostenitori di votare chi ha abbandonato Draghi, o si oppone a termovalorizzatori e rigassificatori. Con l’attuale legge elettorale, infatti, non sono possibili né voto disgiunto, né desistenza. Il voto alla lista nel proporzionale si trasferisce automaticamente al candidato nella parte maggioritaria. Se il nome proposto nella competizione uno-contro-uno è indigesto, non c’è modo di diversificare la propria posizione.
Per tutta la giornata si è ballato sull’orlo di una rottura che nessuno dei due voleva certificare, in un imbarazzante gioco del cerino. Calenda pressato dalla più malleabile Bonino, Letta dagli appelli dei dirigenti bersaniani che gli chiedono di riaprire in extremis il dialogo con M5s, e con Fratoianni, che contrappone “Agenda Greta” ad “Agenda Draghi”, finendo per dare implicitamente ragione ai distinguo del leader di Azione. Il più in difficoltà è parso Letta, ma dal Nazareno a sera hanno fatto filtrare che i due litiganti di centrosinistra si erano visti tre giorni prima, trovando un’intesa praticamente completa, compresa la spinosa questione dei collegi. Una voce che non ha trovato smentita dalle parti di Calenda, che diventa quindi sospettato di aver cambiato idea.
In questo braccio di ferro a rischiare di più è in ogni caso Calenda, perché in fondo Letta ha già fatto pure il premier. Se dovesse passare per lo sfasciacarrozze non ne uscirebbe certo bene, e tutte le sue possibilità di crescita ne risulterebbero compromesse. Diventerebbe lui il capro espiatorio del centrosinistra ridotto all’opposizione. E, se dovesse rinunciare al patto con Letta, Calenda si troverebbe pure di fronte al dilemma se dare vita o meno nel giro di 3-4 giorni a un rassemblement di centro con Matteo Renzi, con cui l’assoluta sintonia programmatica va di pari passo con le ambizioni confliggenti di entrambi. Renzi ormai ha dato per persa la possibilità di allearsi con il Pd. Attende Calenda al varco. Ma il contrasto feroce andato in scena con Letta potrebbe ripetersi. E Renzi ha sempre dimostrato una ferocia politica superiore, sin dal tempo di “Enrico stai sereno”. Figurarsi ora, che combatte per la propria sopravvivenza politica.
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